© Fatto quotidiano / Puntarella Rossa
"Vino libero". Non male eh? Niente da dire, Oscar Farinetti deve avere dietro di sé una grande squadra, se riesce a sfornare in continuazione idee e slogan capaci di incidersi nella memoria collettiva e di avere un risalto incredibile sui media. In più, lo fa da posizioni progressiste, che lo inseriscono tra chi fa soldi vendendo qualità. E così la sua ultima iniziativa, presentata oggi da Eataly con un one-man-show (di cui vi parleremo), vede dodici cantine (tra le quali, la sua, Fontanafredda), unite da un manifesto che lancia il "vino libero dalla chimica e dalle mode effimere". Un milione di bottiglie con solfiti e imballaggi ridotti, pronte a essere smerciate in 400 punti vendita e a sbarcare in almeno 600 ristoranti, con il logo tricolore di "Vino libero". Il dubbio è lì: straordinaria operazione che promuove il vino naturale o gigantesca operazione di lobby commerciale che impone sul mercato la propria lista di vini, schiacciando chi faticosamente e coraggiosamente sta cercando di emergere da anni con i suoi vini artigianali, creati con amore e fatica?
Vediamo. Le dodici cantine producono un vino "libero da concimi chimici, erbicidi" e con "il 40 per cento di solfiti aggiunti in meno rispetto alla quantità consentita per legge". Non una quantità smisurata, visto quanto fanno altri piccoli produttori, capaci di azzerare o quasi i solfiti aggiunti. Ma il punto non è solo questo. Farinetti ammanta la sua operazione commerciale di una discreta quantità di ideologia in salsa populista (populismo elitario, che non è una contraddizione, perché pesca nei settori più progressisti della società, non nella massa indistinta dei consumatori). Il suo vino deve essere libero, innanzitutto, dagli abbinamenti. Perché "ognuno deve bere quello che gli piace mangiando quello che gli va". Bello, no? Libertà! Basta con i professoroni: "Bisogna liberare il vino anche dall'altro rito, quello delle analisi sensoriali che non fanno capire niente". Immaginiamo il sollievo di milioni di bevitori di vino, da sempre in difficoltà rispetto a chi ciancia di tannini e sapidità, fermentazione malolattica e ossidazione delle sostanze fenoliche (qui un interessante articolo dell'ottimo Bressanini). Ma non basta, ché il simpatico Farinetti non si fa mancare nulla. Perché decide di vendere vini a prezzi competitivi, dai 3 ai 35 euro. A parte che tre euro sono una cifra un po' sospetta per chi vuole vendere un vino decente e che 35 non sono pochi. Ma, detto questo, Farinetti va oltre: "I vini più cari di 35 euro mi sembrano esagerati". Perfetta chiusura del cerchio, con adesione totale allo sconcerto dell'uomo della strada per certi prezzi smisurati.
Insomma, un punto è chiaro: Oscar Farinetti è un genio. Un piccolo mago, capace di trasformare in oro tutto quel che tocca, dagli elettrodomestici alla colatura di alici. E di sfruttare al meglio il desiderio di élite allargate per un consumo consapevole, senza dimenticare la petriniana adesione all'ideologia della natura incontaminata da Mulino Bianco.
Alla fine, le domande da porsi sono due.
E' un bene per i consumatori l'arrivo sul mercato del "vino libero" farinettiano? La risposta è tendenzialmente sì, perché berranno vino più sano, più corretto, meno artificiale. Con un punto interrogativo: siamo sicuro che siano buoni? Siamo sicuri che siano paragonabili ai vini naturali prodotti da piccole cantine con il rispetto rigoroso di regole ben più ristrettive? Non siamo sicuri.
E' un bene per i produttori di vino naturale? La risposta è tendenzialmente no, perché se l'arrivo del vino libero allarga il mercato e contribuisce a dare consapevolezza ai consumatori, dall'altra la sua forza commerciale finirà inevitabilmente per schiacciare chi produce faticosamente e a costi inevitabilmente più alti. E dunque allargherà l'imbuto dalla parte dei consumatori e lo stringerà dalla parte dei produttori, riducendo l'offerta. Direte voi, poco male, è successo anche con la grande distribuzione, che ha spazzato via i piccoli esercenti. Vero, ma non è una cosa bella in generale, quando l'offerta si riduce e i grandi marchi prendono il sopravvento.
Detto questo, onore al compagno (?) Farinetti, del quale anticipiamo la prossima creatura: un movimento politico liquido dal nome "Italia libera". Silvio e Beppe sono avvertiti.
continua la crociata qualunquista contro Farinetti
come se questa iniziativa insidiasse il segmento di nicchia di chi compra vini artigianali
in realtà si rivolge a un'altra fascia di mercato
nessuna crociata: si chiamano opinioni.
quanto al qualunquismo, che c’entra?
Inutile ripetere per la millesima volta che di eataly su puntarella si è parlato bene per le cose che ci piacevano e male per le altre. Opinioni nostre, s’intende, condivisibili o meno.
Definirlo genio, evidentemente, per qualcuno non è abbastanza, ci rendiamo conto…
le critiche le ricordi, per il resto ti rinfreschiamo la memoria
https://www.puntarellarossa.it/wp/2012/09/14/eataly-street-food-4-la-piadineria/
https://www.puntarellarossa.it/wp/2012/08/28/1-eataly-roma-a-me-piace-anche-se/
https://www.puntarellarossa.it/wp/2012/06/12/nicola-farinetti-ci-racconta-eataly-roma/
Nel post c'è un'inesattezza. Farinetti è proprietario non solo di Fontanafredda ma anche di Mirafiore, Borgogno; di Brandini, San Romano, Monterossa e Serafini & Vidotto Farinetti detiene delle quote.
non volevamo fare l’elenco, ma l’avevamo già scritto in passato e riportato anche la ricerca che lo conferma
https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&ved=0CFQQFjAA&url=http%3A%2F%2Fwww.tommasoventurini.it%2Fweb%2Fuploads%2Ftommaso_venturini%2FIlNostroPaneQuotidiano.pdf&ei=cfPzT-nmAcGp4gTB39iSBw&usg=AFQjCNGoYvJjwlUDqEA3GhoXhFBsY3DNXw&sig2=D8WdialHzsTBqB6q22LE3Q
Secondo la ricerca di Slow Food, “Il nostro pane quotidiano”, le aziende interamente o parzialmente controllate da Eataly sono:
1. Pastificio Afeltra di Gragnano (100% Eataly s.r.l.).
2. Vini San Romano (100% Eataly s.r.l.).
3. Vini Cantine del Castello di Santa Vittoria (97,5% Eataly s.r.l., 2,5% management).
4. La Granda, carni bovine, (50% Eataly s.r.l., %50 Sergio Capaldo).
5. L’acqua Lurisia (50% Eataly s.r.l., 50% famiglia Invernizzi).
6. Salumi Antica Ardenga (50% Eataly s.r.l., 50% Massimo Pezzani).
83
7. Luca Montersino per Eataly, pasticceria (50% Eataly s.r.l., 50% Luca Montersino).
8. Vini Azienda Agricola Brandini (40% Eataly s.r.l., 40% Piero Bagnasco, 20% Carlo
Cavagnero).
9. Distilleria Montanaro (36% Eataly s.r.l., 64% 4 azionisti Montanaro)
10. Vini Serafni & Vidotto (25% Eataly s.r.l., 50% Serafni e Vidotto, 25% famiglia
Tolio).
11. Birra Lurisia (20% Eataly s.r.l., 80% Teo Musso).
12. Azienda agricola e Caseifcio Agrilanga (50% Eataly s.r.l., 50% due soci storici).
Senza contare che, per il momento, vedo tanta fuffa: libero da concimi chimici (cosa vuol dire)? Diserbanti (ma tutto il resto sì? Antiparassitari, anticrittogamici etc), utilizzo minimo di solfiti aggiunti (40 % del max di legge non è poco, inoltre ci sono i solfiti non aggiunti…). Insomma piacerebbe leggere un disciplinare (qualcuno lo trova? io no…)
Non sarà che ci stanno a pigliar tutti per fessi, come con il chinotto e la birra a 10€?
chinotto e birra (credo baladin) sono esempi insesnsati. il chinotto lurisia è tra i migliori in circolazipne e la bottiglietta costa circa 1 euro e qualcosa. le birre artigianali viaggiano tutte dai 10 euto in su, – tutte-. quindi non vedo chi ci piglia per fessi. O meglio, se la mettiamo così, allora tutti i birrifici ci pigliano per fessi.
Manifesto del gastronomo credente.
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Sono per l'avvocatura di un'alta gastronomia reale, trasparente, che non necessiti di mentire riguardo alle ragioni della propria superiorità.
Perseguo l'educazione alla qualità alimentare come obiettivo anziché come sterile leva di marketing.
Professo la qualità artigianale intesa come disponibilità fisiologicamente limitata, attenta al dettaglio delle manifatture, alla massima resa sensoriale anche a scapito del tornaconto.
Sconfesso come estranea al concetto di "eccellenza" la produzione seriale di beni gastronomici, nel momento in cui cessi di poter assicurare uno standard qualitativo massimo.
Mi schiero contro chi in virtù del profitto si arroghi senza diritto il titolo di maestro delle qualità, impartendo al pubblico, per fini propri, lezioni parziali e tendenziose.
Sono contrario alle entità commerciali che saturino il mercato con marchi di presunta eccellenza, non lasciando nelle coscienze dei consumatori alcuno spazio per la conoscenza di realtà piccole, operose, indipendenti.
Sono per il giusto profitto e per l'accessibilità: chiedo che i prodotti fabbricati in grandi quantità e quindi non più vincolati a economie marginali, vengano venduti a prezzi ridotti.
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Proteggi il patrimonio gastronomico italiano dall'industrializzazione che si atteggia a nicchia. Preserva le eccellenze. Pretendi di pagare il giusto. Aderisci a una buona causa: boicotta (e fai boicottare) Eataly WORLDWIDE_
@Franco, mi permetto di dissentire. Quando si parla di birre artigianali, gran parte dei costi di produzione deriva dall'impianto, dall'ampiezza delle aree di stoccaggio e dalle quantità che è possibile generare in una sola cotta, ossia in un singolo ciclo di lavoro. A pari quantità di prodotto, un impianto piccolo comporta naturalmente che il lavoro del birraio sia ripartito in più cicli: esso risulta quindi antieconomico rispetto a un impianto grande, con un'impennata dei costi marginali anche notevole. È assurdo quindi che Baladin, il birrificio "artigianale" più grande d'Italia – foraggiato anche se non direttamente controllato da Farinetti – abbia subito una simile inflazione quantitativa (con ricadute evidenti, a mio avviso, anche sulla qualità del prodotto) senza riuscire ad abbattere seppur di poco i costi al consumatore finale… Baladin affronta chiaramente, rispetto a realtà molto più piccole, un crollo dei costi marginali il cui positivo viene però riassorbito solo internamente, in termini di percentuali di profitto; senza considerare minimamente l'eventualità di andare incontro al pubblico. Aggiungiamo che Baladin, agendo anche da distributore di molte realtà quantitativamente "minori" tramite il circuito Open, così agendo setta i prezzi "di cartello" di gran parte del comparto birrario italiano – in quanto i prezzi di scaffale non concedono ai birrifici aderenti al progetto l'autonomia di vendere a meno della soglia fissata.
Mah, guarda, i prezzi di "cartello" se vogliamo chimarli così, esistevano molto, ma molto prima del circuito Open, sui prezzi "soglia" qualche settimana fa ho visto delle super baladin, in un locale della liguria, a 14 eurini, idem parecchie altre. non male eh?comunque non c'e dubbio che dieci euro sono molti. E poi non è detto che baladin non esca, tra un po', con qualcosa di più abbordabile al consumatore finale…
Nessuno ha puntato il dito contro (o a favore) de "Bisogna liberare il vino anche dall'altro rito, quello delle analisi sensoriali che non fanno capire niente" che voglio leggere ed interpreatre anche in un altro modo, ovvero "non lasciatevi abbindolare da coloro i quali dicono o potrebbero dire che un determinato vino (libero?) non è di qualità (è il rischio che si corre quando si dà credito alle analisi sensoriali e organolettiche, no?) Bevetelo tranquillamente perchè è buono, sano, pulito e.. libero".