Un sommelier a Londra, Alessandro Gallo: “Qui si beve internazionale: molta Francia e poca Italia, a parte il Prosecco”

Un sommelier a Londra, Alessandro Gallo. La nostra antica bevanda preferita è da sempre culturalmente determinata. Ogni Paese ha non solo i suoi vini, ma soprattutto i suoi clienti con i relativi gusti. Spetta quindi a coloro che descrivono le peculiarità enologiche adattarsi e plasmare la propria professionalità alle diverse esigenze.
Parliamo di queste differenze e dello stato dell’arte del vino italiano a Londra con Alessandro Gallo, giovane sommelier romano, da due anni prestato alla frenetica e lussuosa hospitality della City. Partito come sommelier da Pierluigi, storico ristorante amato da Vip e con una delle cantine più ricche di Roma, oggi Alessandro lavora al nuovo ristorante Davies and Brook dell’hotel Claridge’s. Un progetto fortemente voluto dallo chef Daniel Humm dell’Eleven Madison Park di New York, premiato nel 2017 come miglior ristorante al mondo secondo The Worlds 50 Best Restaurants.

Com’è essere un degustatore professionista nella città più multiculturale del mondo?
“In una città come Londra, soprattutto in un settore come quello dell’ospitalità ci sono professionisti provenienti da tutto il mondo. Noi italiani insieme ai francesi partiamo avvantaggiati per quanto riguarda la conoscenza enologica tout court. Ma vuoi per la clientela, per la scarsa tradizione enologica locale e per la vocazione commerciale che ha sempre avuto l’Inghilterra, dobbiamo conoscere uvaggi e produttori di tutto il mondo. Insomma in Italia siamo giustamente molto focalizzati su noi stessi e su qualcosa di francese e questo può bastare. Qui a Londra invece ci si allarga sul panorama mondiale. In Italia se parli di vino australiano il sommelier ti guarda un po’ storto, è un discorso soprattutto storico-culturale”.

Come si affronta il servizio di sala in una città come Londra?
“Qui i tempi dei pasti sono molto più brevi, quindi cambia anche lo stile di servizio. Molto spesso si tratta di business meeting, quindi noi sommelier dobbiamo essere più dinamici ed elastici. Se si paragonano i ristoranti stellati, qui hanno un numero di coperti di gran lunga maggiore rispetto a quelli italiani. Di conseguenza il momento sociale del pasto è visto in maniera più concreta e mono conviviale”.

Quali sono i gusti degli inglesi?
“L’Impero ha da sempre importato soprattutto Bordeaux e Porto. Per quest’ultimo hanno un vero e proprio feticismo, ma anche i vini francesi sono fondamentali, qui le carte vengono costruite a partire dalla Francia. Ma non basta, siamo abituati a sentirci chiedere prodotti americani, sudafricani, australiani e neozelandesi. L’approccio del cliente al vino qui è diverso: se un americano è in vacanza in Italia o Francia tenderà a chiedere un prodotto piuttosto legato al territorio in cui si trova, a Londra invece ricerca varietà internazionali che più o meno già conosce”.

Questo influenza la costruzione della vostra carta dei vini.
“Esatto, la strutturazione della nostra carta è unica a livello di ristoranti. Abbiamo un’offerta di quasi 2mila prodotti differenti e un’organizzazione piuttosto insolita. Sono infatti in pochi che la costruiscono in base alla varietà di uva, dalla più leggera alla più strutturata. Se solitamente la spina dorsale è costituita dalla differenziazione tra bollicine, bianchi e rossi, da noi si ordinano in base all’uvaggio e di conseguenza alla loro struttura. Prediligiamo i classici, quindi l’area di provenienza della varietà fondamentale. Per esempio se partiamo con i Riesling troveremo in ordine la Germania, l’Austria e poi l’Alsazia. E’ un’offerta forse un po’ più difficile da interpretare, ma è molto interessante perché il cliente che ha meno conoscenza in materia saprà più facilmente dove cercare se vuole bere un uvaggio internazionale. Questa impostazione è stata pensata all’Eleven Madison Park di New York della stessa proprietà e riportata a Londra”.

E il vino italiano?
“Per il tipo di clientela che abbiamo, paradossalmente la selezione americana è più ampia di quella italiana. D’altronde per i nostri clienti a livello gustativo è più facile avvicinarsi a un vitigno internazionale che conosce (un bordeaux francese o un Pinot americano), piuttosto che indirizzarsi verso un prodotto autoctono italiano ancora poco conosciuto, oltre che più difficile da interpretare a livello gustativo. In carta abbiamo naturalmente tanta Toscana e Piemonte, ma a me piace orientare il cliente verso la zona dell’Etna, che ritengo meritevole di attenzione. Tra i produttori che prediligo abbiamo Franck Cornelissen, che lavora Nerello in maniera molto particolare, Monterosso, i Vigneri e Tenuta delle Terre Nere.
Qui a Londra è molto diffuso e apprezzato il Prosecco, che ha una vocazione molto internazionale ed è un prodotto che si avvicina molto al gusto inglese. Ma la straordinaria varietà di uvaggi autoctoni italiani, troppo spesso ancora non ha il prestigio che meriterebbe. I nostri prodotti hanno bisogno di essere raccontati in un certo modo per farne apprezzare appieno le loro peculiarità e il loro stretto rapporto con il territorio. E’ quindi compito di noi sommelier italiani colmare il gap di immagine che ancora c’è con la Francia, ma siamo sulla buona strada”.

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