Soncini, la repubblica dei cuochi e del gonzo journalism all’amatriciana

Guia Soncini La repubblica dei cuochi (Il Mulino). Leggere uno scritto di Guia Soncini è come andare a cena da Carlo Cracco. Non puoi negare una certa maestria nella fattura del prodotto, nell’arte di infiocchettare parole e di intortarti a dovere, ma non riesci neanche a toglierti una sensazione di leggera  acidità dallo stomaco, a lettura/cena consumata. Succede così anche leggendo l’agile (agilissimo, 83 micropagine) libretto della Soncini dedicato alla Repubblica dei Cuochi. Un pasto rapido e ben condito, con osservazioni acute e perfide, mantecate con qualche banalità e qualche ingrediente già ampiamente assimilato in quel bolo che è diventato il discorso sul cibo in Italia.

Guia Soncini La repubblica dei cuochiPerché peggio dell’invadenza del cibo nella sfera della quotidianità, è l’invadenza stucchevole del “discorso” pubblico sul cibo. O dell’intemerata snob o fintamente indignata contro l’invadenza del cibo. Non se può più di foodies e chef, di impiattamenti e gastrocrazia? Di Settembrini e Eataly, Bottura e Farinetti? E’ vero, non se ne può più.
Bottura è una rock star, anzi un sacerdote, e si prenota da lui per andare in pellegrinaggio e avere la benedizione del novello sacerdote, di fronte all’ostia sconsacrata, il celeberrimo bollito/non bollito? 
E’ vero. Non se ne può più, però, anche di “non se ne può più”. A furia di rimasticare j’accuse (ah, che bello quando una volta si discettava di madeleine per parlare di Proust e non di aglio nell’amatriciana), si finisce per farli diventare parte dello show. Un po’ come quella puntata di Black Mirror, dove il concorrente di una sorta di fanta talent si presenta davanti alla giuria, con tanto di coltello alla gola, minacciando di uccidersi e pronunciando un violentissimo atto d’accusa contro la volgarità e l’ingiustizia dello show. I tre giudici tacciono, incupiti, poi prontamente lo ingaggiano: un bello spazio alla settimana per urlare la sua rabbia, coltello compreso. Applausi. La cena continua.

Soncini si indigna per lo strapotere della “cultura del food” (a partire dal lessico) e si scandalizza che venga considerato un vezzo e non una lacuna non aver letto Guerra e Pace e invece sia oggetto di dura riprovazione sociale non distinguere tra patanegra e culatello (è facile, Guia, il patanegra costa di più). Evidentemente frequenta le persone sbagliate. La gente normale non sa distinguere affatto tra patanegra e culatello e, naturalmente, non ha mai letto Guerra e Pace. C’è solo una minuscola “aristocrazia” che si diletta nella letteratura, è sempre stato così, e c’è una classe media borghese (un tempo si sarebbe detto così, oggi si può dirlo, sottraendo l’alone ideologico negativo) che si diletta a ragionare di cibo, seguendo mode e impastandosi di finte nozioni, come una volta ragionava di storia guardando i documentari di Piero Angela o di lingua guardando “Parola mia” di Luciano Rispoli.

Soncini va a mangiare l’hamburger d’estate da Eataly e sottolinea che è lì mica perché ha appena finito di lavorare, ma perché “odia le località di villeggiatura affollate d’agosto”. Le stesse dove si discetterà di culatello e patanegra, stretti come sardine sotto l’ombrellone. Che volgarità, Rimini.

hunter thompson

Poi dopo aver lasciato cadere il suo sottile disprezzo verso i “dettaglianti ordinari di derrate alimentari” (commessi di bar e supermercati), che dal fondo della loro bieca ignoranza, alla parola giornalista sanno solo aggiungere “come Severgnini” o “ah scrive su Confidenze”, ci spiega che l’omino dell’hamburger di Eataly le risponde “ah, come Hunter Thompson”. “Lo stipendiato di Eataly – dice – ne è anche il target”. Agnizione di una giornalista che scopre, miodio, che dietro un grembiule macchiato di sangue bovino può nascondersi perfino un individuo che legge. E non solo Confidenze o Cronaca Vera (splendida lettura, tra l’altro). Conosce perfino il Gonzo journalism.

Per il resto, tutto giusto e interessante, persino divertente. O molto divertente, come i tre atti di Sadler su Masterchef. Il cibo come culto, il senso del ridicolo abrogato. “Le toilette di Eataly” (vedi il pezzo che facemmo qualche annetto fa sulla semiologia di Eataly). Il pecorino come “bene aspirazionale”. O il maschio eterosessuale di una volta, che non si sentiva in dovere di dichiararsi “re della cucina”, ma ammetteva con sincerità compiaciuta, come Woody Allen, di “ciucciare surgelati come ghiaccioli”.
Fatta la tara alla parte acida della Soncini, resta una lettura divertente e intelligente, complementare rispetto agli “Sbafatori” di Camilla Baresani, che abbiamo omaggiato qui. Sarebbero quasi da imporre come libri di testo per aspiranti (o già scafati) foodblogger.

L’unico rischio è che si passi poi direttamente da fuffblogger a virago della scrittura, dall’abuso di impiattamento al gonzo journalism all’amatriciana.