“Te ne sei accorto sì, che parti per scalare le montagne, e poi ti fermi al primo ristorante, e non ci pensi più. Te ne sei accorto sì, che tutto questo rischio calcolato, toglie il sapore pure al cioccolato. E non ti basta più”. Brunori Sas.
L’umanità si divide in due e io l’abbraccio tutta. Ci sono gli abitudinari, quelli che preferiscono essere rassicurati: perché ne hanno bisogno, devono trovare conferma alle loro opinioni e ai loro gusti. E ci sono gli esploratori, quelli sempre alla ricerca di qualcosa di diverso, quelli che cercano di scoprire e vogliono essere sorpresi. In una parola, ci sono i metodici, che trovano conforto nel già conosciuto. E gli irrequieti, che non s’accontentano mai. Va da sé che i primi, nella loro coazione a ripetere, vivranno una vita confortevole e saggia, percorrendo un binario che non tollera deviazioni e non ammette ritardi. I secondi si troveranno in balia dell’ignoto e viaggeranno sulle montagne russe senza mai sapere cosa li aspetta alla fine di una discesa vertiginosa o di una curva parabolica. Dicotomia un po’ schematica, certo. Per togliere ogni sospetto di manicheismo, vi dico subito che apparteniamo a entrambe le metà del cielo: a seconda dei giorni, degli umori, delle condizioni di vita. Naturalmente c’è chi oscilla più in direzione delle abitudini e chi in quella del rischio. Io, l’avrete capito, nella maggior parte delle mie ore frenetiche, pencolo tra la schizofrenia e la ciclotimia. Ma ci son giorni perduti, quelli delle energie esauste e degli astratti furori, nei quali non vedo altro rimedio che tuffarmi nel rituale dolce delle abitudini usate.
Questa classificazione binaria vale anche e soprattutto per i frequentatori di ristoranti e per i consumatori di vino. Avete mai fatto attenzione a come scegliete un ristorante? Di solito quando esco con un amico, so già in che categoria metterlo. C’è l’amico che vuole tornare sempre allo stesso, “dai andiamo dallo Scopettaro, non ti delude mai, ci vado da 40 anni”. E l’amico che ti chiede: “C’è roba nuova da provare? Qualche cucina etnica della Kamchatka?”. Per la scelta dei piatti in carta vale la stessa logica. Riflettendoci, mi sono reso conto che mangio sempre le stesse cose, pur cambiando spesso ristorante. Come resistere al fascino della guancia brasata al barolo? E delle linguine con i gamberi rossi? E il crudo di pesce? Sul dolce, poi, non si discute: mousse al cioccolato o qualunque cosa abbia il cacao tra gli ingredienti. Sui vini è uguale, se non peggio. L’occhio irrequieto, aprendo la chilometrica carta, va subito a caccia dei produttori noti. Ah, ecco Parusso, Clerico, Gravner. Se non trovi i produttori, ti rifugi nei vitigni: Barbera o Nebbiolo? Ripasso o Aglianico?
E’ lo stesso riflesso, se vogliamo, di chi cerca il tipico, il tradizionale, il classico. In ogni campo. Quelli che la carbonara è quella della ricetta tradizionale (ma dove c’è scritta?) e non si accettano variazioni sul tema. Quelli che Bach è Horowitz, mica quello sciamannato di Glenn Gould, che canticchiava suonando. La letteratura sono i classici: non ho ancora finito Tolstoj, ti pare che posso perdere tempo con Colson Whitehead e Allan Gurganus? L’abitudinario è tradizionalista anche nel gusto, perché il suo palato si è abituato a quel sapore, a quello stile, a quel fraseggio musicale. I primi americani che ascoltavano il jazz, scappavano dalla sala, disgustati da quei suoni sincopati, da quegli accostamenti di note che parevano il delirio di scimmie impazzite. I primi dipinti di Picasso parevano una bestemmia, un affronto all’arte. Ora certo jazz è per alcuni musica d’ascensore, stucchevole nella sua prevedibilità. Picasso è diventato un pittore da cartolina, più imitato della Settimana enigmistica. Come è potuto accadere? E’ successo che le nostre orecchie, i nostri occhi, si sono abituati.
Eppure bisogna ricordarselo che si va avanti, si progredisce, solo per scarti, variazioni imprevedibili, azzardi. Se non provi cose nuove, conoscerai solo le vecchie. Ma attenti: gli ossessionati dall’ansia del nuovo, dalla droga dell’azzardo, dalla passione bruciante della sfida, rischieranno di perdersi la dolcezza del già noto, l’armonia della classicità, la compiutezza della storia.
Io comunque ho deciso. Come pensierino di inizio anno, sono pronto a nuovi cimenti perigliosi e a inerpicarmi su qualche vetta sconosciuta, sperando di non precipitare. Voglio godermi il vitigno sconosciuto, che per me è il vino perfetto (perfetto? Qui un ripasso per chi ha opinioni troppo decise): una Spergola e una Verdeca, una Tintilia e un Bombino. Voglio provare il pesce Akamutsu e le lumache trifolate, i ragni fritti cambogiani e la farina di grilli. Voglio leggere It, anche se ho sempre diffidato di Stephen King, e andare a vedere un balletto. Voglio fare meditazione e mettere le infradito (si scherza). Voglio forzare la mia “natura” (che poi è cultura, come diceva Freud). Voglio trovare nuove deviazioni. Nuove cucine, nuove sensazioni, nuovi abbinamenti.
Poi lo so che non ci riuscirò. Lo so che mi prenderò la pasta e fagioli e la mousse al cioccolato. Lo so che andrò al mio solito wine bar che si sta tanto bene. Che rileggerò Hemingway e rivedrò un Woody Allen sempre più stanco e vecchio. Ma va bene così, in fondo noi esploratori riluttanti siamo anche sognatori dilettanti. E non vediamo l’ora di abbracciare l’altra di metà di noi, quella metodica e abitudinaria, che ci fa cenno suadente: “Amico, dove vai? Fermati un momento, vieni con noi. Mangiamoci un po’ di pane e formaggio e riposiamoci. Il vino? Tranquillo, è il solito”