Elogio della carrozza bar Quando arrivò Italo, tutti a sdilinquirsi per la bellezza delle poltrone Frau, la modernità delle carrozze, la mise trendy dei controllori, giovani e bellocci, così distanti dall’immagine impiegatizia di Trenitalia. Tra le lodi sperticate, non mancarono quelle per l’abolizione della carrozza ristorante e bar e per la sostituzione con nuove e funzionali macchinette griffate Illy. A cosa servono gli omini quando un marchingegno può far tutto? Io non ero tra gli italo-entusiasti della “rivoluzione” di Italo.
Innanzitutto, le poltrone. Solo una a quattro, due di fronte alle altre due. E per di più, con il tavolino incomprensibilmente troppo corto. Tutte le altre poltrone disposte a coppie asfittiche, ordinatamente sterili. E poi le orride macchinette mangiasoldi. Il solito cappuccino o cioccolata da ufficio, ma a prezzi maggiorati (2 euro una cioccolata). E le solite merendine idrogenate, junk food buono per dodicenni brufolosi o quarantenni in cerca di facile conforto. Che la rivoluzione delle macchinette fosse un’orrenda cazzata l’avevo intuito, con il mio fiuto primitivo, sin da subito. Ieri ne ho avuto conferma, sull’Italo che mi ha condotto da Milano Porta Garibaldi a Roma Termini. Diffidente, ma senza alternative, mi sono avvicinato a uno di questi ordigni, dopo averlo cercato per un po’. Eccolo. Premo su cioccolata, per verificare il prezzo. Niente. Guardo meglio: tutto spento. Un bigliettino scalcagnato mi comunica: macchina fuori servizio. Out of order.
Eccoci. Risalgo il treno, con l’arsura che già mi consuma. Incrocio un controllore. Elegantissimo. Mi informa, con grande eleganza: “Certo, ce ne sono altre tre di macchine distributrici”. “Ah, ottimo!”. “Però tutte e quattro purtroppo sono fuori servizio”. Si scusa per l’inconveniente e sparisce, lasciandosi alle spalle una scia di eleganza.
Io resto lì, con la mia arsura. Non siamo neanche arrivati a Bologna. Ancora due ore, senza poter mangiare e senza poter bere. Sogno il mitico box di Eataly, che all’inizio, ingenuamente, giudicammo troppo smilzo e che ora è sparito, non sostituito da nulla.
Sogno Trenitalia. La lunga fila di fronte al barista, sempre impacciato, lento, alle prese con la scomodissima penna del registratore di cassa. Sogno di poter sentire la fatidica frase: “Non ho resto, ma intanto le do il caffè, mi paga dopo”. Sogno di farmi scavalcare da qualche furbetto. Sogno di prendere al volo mentre sta precipitando sul bancone dai suoi tacchi a trampolino una ragazza da fiaba. Sogno di dover restare in fila per cinque minuti, in mezzo alla carrozza, aspettando che il carrellino porta vivande finisca di servire ciofeche imbevibili e patatine zozzissime. Sogno persino loro, i venditori abusivi, con il loro secchio pieno di ghiaccio e bibite.
E invece sono qui, disidratato, sul modernissimo ed elegante Italo (che maledico).