Di Alessandra Tibollo
Schivo, discreto, ma con una determinazione che ti fa tremare i polsi. Dopo i primi minuti passati ad abituarsi al suo accento un po’ contaminato (è calabro-francese e sembra di sentir parlare una specie di Bastianich francese), la chiacchierata con Anthony Genovese va al sodo: quanto costa mangiare al Pagliaccio e perché costa così tanto?
Non si nasconde dietro un dito Genovese e ammette che nei dieci anni dall’apertura ad oggi, festeggiati con una sontuosa cena per un manipolo di giornalisti, siamo passati da un conto di circa 50 euro a più del doppio, 120-130 euro a testa. “Ci criticano spesso per questo, ma c’è una serie di motivazioni dietro a questa scelta”. Non è solo un’inflazione un po’ sopra le righe, spiega Genovese, ma un vero e proprio programma quasi politico di rilancio della cucina italiana in chiave fusion, interpretata da questo chef che ha conosciuto il mondo e soprattutto i paesi orientali, sua vera passione. “Penso spesso che se fossi stato a Londra o in Francia sarebbe stato tutto più facile. Nessuno si sarebbe sognato di lamentarsi dei prezzi”. Solo in Spagna, ammette, i grandi stellati possono costare anche molto meno, “ma lì i vari Ferran Adrià e compagni possono vantare una fiscalità estremamente agevolata”.
Stellati, appunto. Perché il Pagliaccio in questi dieci anni ha costantemente rincorso gli obiettivi di qualità che imponeva la guida rossa. Le stelle Michelin sono il vero pallino di Genovese, che ha orientato la sua carriera e i suoi sforzi inseguendo e installandosi a buon titolo nel firmamento gastronomico. La prima stella (già a Palazzo Sasso a Ravello, poi la seconda è arrivata nel 2009 con il Pagliaccio) è stato il “challenge” numero uno, ma non ci si ferma perché bisogna essere capaci di mantenere le suddette stelle e avere la passione per migliorarsi ancora e conquistare, perché no, la terza, che al momento a Roma è affare solo di Heinz Beck.
Ma andiamo ad analizzare cosa è cambiato in questi dieci anni e spieghiamo, con il racconto di Genovese, perché i prezzi sono più che raddoppiati. Per prima cosa il locale, che come per la maggior parte dei ristoranti non è di proprietà, con conseguente affitto commisurato alla zona, in pieno centro storico, a due passi da Campo dei Fiori. Da tener presente che Genovese ha nel tempo cambiato l’aspetto del locale diverse volte: “Abbiamo iniziato – racconta – con le sedie di paglia, come una comune trattoriaccia”. Ed è solo di pochi mesi fa l’ultimo intervento, con una ristrutturazione piuttosto importante. Lo stile alterna elementi di recupero, come il pavimento anni Venti lasciato com’era e le travi antiche di legno solo dipinte di grigio, con elementi di design e qualche tocco personale che riprende i temi caldi dello chef: i cubi colorati dietro il bancone del ricevimento riprendono l’ispirazione circense, le pareti in stile giapponese che separano la saletta riservata con un solo tavolo sono un chiaro rimando alle esperienze asiatiche di Genovese.
Poi il servizio, affidato a un poker di giovanissimi sommelier di grandissima esperienza, capitanati da Gennaro Buono (restaurant manager) e Matteo Zappile (chef sommelier). Una vera rarità trovare questo connubio di gioventù e professionalità. Ma ovviamente queste cose si pagano e bisogna tenere conto che fra cucina e sala al Pagliaccio ci lavorano in 15, con un rapporto che supera l’uno a due, cioè un addetto ogni due clienti. “E in Italia il costo del lavoro è praticamente il doppio di quello che va in tasca ai nostri ragazzi”, ricorda Genovese. Da notare anche la mise en place: piatti e bicchieri eleganti e delicatissimi che costano decine di euro al pezzo. Roba che un ristoratore se li può permettere solo se sottoscrive un’assicurazione.
Last but not least, parliamo dei piatti. Ed è qui la vera evoluzione che ha fronteggiato il Pagliaccio negli anni, con una ricerca sempre più complessa dell’ingrediente migliore sul mercato, oltre a una continua evoluzione nelle preparazioni e nel numero di passaggi, quindi nel tempo impiegato, che ogni piatto comporta. Basta dare un’occhiata al sito della Longino&Cardenal, uno dei fornitori di Genovese, per capire che anche chi si vanta di offrire alti cibi al confronto vende robaccia. Qualche esempio degli ingredienti top utilizzati: i filetti di vacca vecchia Vacuum, una prelibatezza da oltre 50 euro al chilo; baccalà Giraldo talmente dolce da sembrare che non abbia mai visto il sale; ostriche Tsarskaya, le più ricercate sul mercato, che vengono da Mont Saint Michel e hanno questo nome russofono perché anticamente apprezzate dagli zar, vendute a quasi due euro al pezzo, ma solo in scatole da 50.
Senza contare la crisi, argomento che viene fuori ogni due frasi. I flussi sono leggermente diminuiti e i tavoli (solo 28 coperti) non sono pieni proprio tutti i giorni, ma il costo per mandare avanti tutta la macchina è comunque sempre quello. Ci vorrebbe Masterchef, scherziamo con Genovese. A cui chiediamo: “Farebbe il giudice?”. E lui nonostante la sua naturale riservatezza ammette di sì. “È un modo come un altro per farsi conoscere. Da Carlo Cracco i tavoli sono sempre pieni”.