Pub e decreto, la rabbia di Mastro Titta: “Lo Stato mi dice che devo fare lo sciacallo”. In ogni norma ci sono margini di interpretazione, come sanno bene i magistrati che devono applicare le leggi. Ma una cosa è un margine di interpretazione, un’altra l’ambiguità. E questo nuovo decreto sul coronavirus, approvato domenica 8 marzo, ne contiene a quintalate. Dal limitare gli spostamenti, che non si capisce bene se è un vincolo reale o una raccomandazione, al metro di distanza nei ristoranti, che uno può interpretare come vuole. Fino alla questione dei pub. L’avevamo già affrontata ed è ancora in vigore, con il nuovo decreto.
La questione è che il decreto, all’articolo 2, prevede la chiusura dei “pub” in tutta Italia. In sostanza, chi non ha licenza di somministrazione, da ristorante, deve chiudere. Mentre i bar e i ristoranti possono stare aperti se prevedono il servizio al tavolo e garantiscono la distanza «di sicurezza» di un metro tra le persone. Una discriminazione insensata e che si presta anche a molta confusione. Di qui la rabbia di Giorgio Chioffi, vulcanico proprietario dello storico pub Mastro Titta. Al netto delle bestemmie, che non riportiamo, il senso del discorso è che Mastro Titta è sì un pub ma ha la licenza di ristorante. Quindi, a differenza degli altri pub, può restare chiuso. Di qui la solidarietà infuriata di Mastro per i colleghi e la rabbia per aprire a “loro spese”.
E se Mastro Titta è infuriato, Manuele Colonna, storico gestore della birreria/pub di Trastevere “Ma che siete venuti a fa’” (detto amichevolmente Macche), non è per nulla sereno, anzi. E scrive:
Alla fine, Colonna ha deciso di chiudere il suo “pub” fino a tempi migliori.