Langosteria Bistrot Milano. All’entrata c’è un uomo di colore (Buttafuori? Buttadentro? Sicurezza?) che saluta le donne “Buongiorno signora” e gli uomini “Ciao caro”. Appena entrati, sei avviluppato in una nuvola di sorrisi che profumano di rosa. La ragazza rossa con le lentiggini ti ammalia con uno sguardo conturbante e ti regala (si fa per dire) un benvenuto emozionante. Non fai in tempo a riprenderti, che s’avanza una nuova ombra leggiadra, che ti sequestra con dolce fermezza il paltò. In pochi secondi ti trasportano, tipo tappeto volante, al tuo posto. Nel percorso, ti muovi tra palloni idrostatici, barche a vela, marionette animate. Davanti al tuo tavolo c’è una ragazza filippina con grembiule che spolvera la sedia.
Eccoci (superata la pletora di luoghi comuni più o meno ammiccanti che abbiamo raccontato) da Langosteria Bistrot, uno dei tre locali milanesi (il quarto è a Paraggi) aperti da Enrico Buonocore, a partire dal primo, inaugurato nel 2007 in via Savona. Regno dell’aragosta, naturalmente, e per clienti alto spendenti: si pasteggia (bene) a king crab alla catalana e champagne.
L’ambiente, dunque. Langosteria Bistrot, aperto nel 2012, è bello, elegante e slanciato, senza troppe formalità. L’ambizione è quello di creare un bistrot di alto livello, tra Parigi e New York. Nel complesso, funziona, anche se i tavoli in alcuni casi sono molto ravvicinati.
La cucina è quella solida della Langosteria. Grandi crudi di pesce e ostriche a volontà. Nell’oyster bar (c’è grande uso e abuso di terminologia straniera) c’è il Plateau Langosteria con ostriche, scampi, gamberi rossi, tartufi, clams, bulots, gamberi gobbetti (45 euro). Lungo l’elengo del “raw fish“, che si conclude con i signature. Tra i quali il King crab alla catalana (45 euro il regular, 35 il 3/4).
Cominciamo con un piatto di sei ostriche Gillardeau (30 euro), servite con tre salse (ma meglio evitare, l’ostrica buona non ha bisogno di aiutini).
Tramortisce per bontà il tramezzino con gamberi rossi e foie gras (16 euro).
Saporita, e grassa come d’ordinanza, la carne della rana pescatrice, servita con purè di patate viola, capperi e limone.
Sapido il baccalà e un po’ sciapo il sottostante lago di ceci neri.
Si prosegue con un dark chocolate (10 euro).
Arriviamo al momento del conto. Per addolcire un momento difficile, torna la ragazza da cui tutto era cominciato che sfodera il più convincente dei sorrisi. Ma non basta. L’entusiasmo si spegne nella lettura dello scontrino. D’accordo i prezzi dei piatti, non modici, ma la qualità delle materie prime è indiscutibile e si paga. Molto meno d’accordo sul coperto. Già, c’è il coperto, quest’istituto medievale, che in questo caso ammonta a un bel 5 euro a testa. Si dirà: non avete avete pagato il pane. Sì, ma non era niente di che: tre fette di pane e grissini. E ancora, acqua a 5 euro.
Necessari, si immagina, per pagare lo stuolo di personale che ti volteggia intorno, tra spolveramenti alle sedie, sorrisoni conturbanti e richieste (un po’ insistenti) di nuovi ordini.