Komi Roma, quando il cinese (scarso) si traveste da giapponese

Komi Roma, quando il cinese (scarso) si traveste da giapponese. Esci baldanzoso dall’ufficio, con una voglia smisurata di nigiri al salmone e in testa un kaiten rotante di tempura e noodles. Imbocchi via Romagna, una stradina anomina che congiunge il muro Torto con via Boncompagni, ed eccoti in un giapponese nuovo di zecca.

Ah, che meraviglia. Peccato per gli stramaledetti monitor infilzati sui tavoli, dove passi ore a capire come funziona il menu digitale. Ma per il resto, ti pare proprio un bel giapponese. Ti siedi e, un po’ schifato per lo schermo toccato da centinaia di altri, fai rollare il display sui piatti. Menu complesso, articolato. Ci sarà il fugu, pensi, essendo reduce da una discussione sul mitico pesce palla giapponese, mortale e delizioso.

La tua partner sobbalza. Che succede, cara? Hai la coda di paglia e scruti il tuo cellulare, per vedere se all’improvviso si è illuminato con qualche nome sospetto (tipo Samantha o Mario). “Ci sono gli involtini primavera!“. Mmh. Il dubbio si avanza, insidioso come uno spaghetto di soia. Non sarà mica cinese? Che dici, non è possibile, si chiama Komi sushi restaurant. Guardiamo il sito ed ecco cosa dice: “Komi è un brand nato per introdurre a Roma la tradizione della cultura giapponese insieme a tante altre combinazioni moderne e creative. La nostra priorità sono le materie prime, la freschezza degli ingredienti e la creatività dei nostri maestri di sushi che tutti i giorni portano il loro estro creativo sulle nostre tavole. Komi è il Sushi Restaurant che stupirà la capitale!”.

Hai capito? E’ un brand nato per introdurre a Roma la tradizione della cultura giapponese! Dai, era ora che si introducesse. E allora mangiamo. I primi piatti, Nigiri e Chirasi, lasciano una lieve sensazione di nausea. Il pesce non appare freschissimo. A seguire, resta la sensazione sgradevole. Roba di second’ordine, fritti che danno il capogiro, e non per l’entusiasmo. Sensazione di malessere generale.

La mia partner vuole togliersi il dubbio e così, quando arriva la cameriera, fa la domanda a bruciapelo, senza troppi convenevoli: “Voi siete cinesi o giapponesi?”. Pausa eloquente e risposta con tono sommesso: “Cinesi“.

Ci siamo. Al di là della qualità di Komi, pessima, mi chiedo: da quand’è che abbiamo abdicato a capire la sostanza delle cose, a dare il nome vero alla realtà, ad associare una storia e  un’identità a un mondo sempre più orientato al business? Non è una presa in giro questo proliferare di ristoranti cinesi che fingono di essere giapponesi? Non è come se dei ristoratori friuliani facessero cucina catanese a Londra? Non che uno chef friuliano non la possa fare, per carità. Siamo per la fusione delle culture e delle identità anche gastronomiche, ma non per l’occultamento, la finzione, il travestimento.  E non basta replicare un format, mettere due poltroncine in un ambiente para-giapponese. Non basta fare una comunicazione vivace sui social, inventandosi frasi come: “Anche tu sei una persona sushiettibile?”. Non basta, anzi, peggiora la sensazione di presa in giro.