Lamantia, i camerieri e i giovani: “Non c’entra lo stipendio, i giovani vogliono un’altra vita”. Ogni volta che si torna su questo tema, ci sono due reazioni pavloviane, d’istinto. Da una parte ci sono i vecchi proprietari e gli chef, gente cresciuta in altre generazioni con il mito ruvido del lavoro, che sbraitano insulti: “I giovani non hanno più voglia di lavorare”. Dall’altra, la reazione speculare: “Per forza che non trovate camerieri, vigliacchi, li pagate con stipendi da fame”. E giù insulti contro i lavativi e gli sfruttatori, contro i perdigiorno drogati e contro i grassi padroni che stritolano sogni e vite in cucine maleodoranti e sordide.
“I giovani non ne possono più”
Poi ci sarebbe il ragionamento più pacato (ma si può ancora fare). Lo fa, in parte, Filippo La Mantia. Che a Radio 24 oggi ha spiegato le sue posizioni, dopo le polemiche dei giorni scorsi (ma l’aveva detto anche a Cook, del Corriere): “Ho tre figli quindi non potrei mai parlare male dei giovani, ho solamente detto che quando ci siamo fermati per il lockdown, tante categorie, io per primo, praticamente siamo stati chiusi a casa e abbiamo pensato al nostro stile di vita, nel nostro caso alla ristorazione. Ci sono come me tanti che hanno una vita compromessa, nel senso che facciamo il lavoro che ci impegna a 360 , ma i ragazzi, i giovani, probabilmente non ne potevano più fare un lavoro che non gli permettesse di vivere una vita praticamente normale e non vogliono più fare questo lavoro”. Poi aggiunge, e qui ripartirà la polemica: “Non c’entrano niente gli stipendi, poi per carità non posso dire che tutti quelli che pagano i camerieri, cuochi, i barman, il lavapiatti li trattino come oro colato, però nella mia categoria noi abbiamo una reputazione da difendere e non ci permetteremo mai di trattare male le persone”.
Camerieri e chef, in 40 anni è cambiato tutto
Allora proviamo a ragionare. Il lavoro nei ristoranti è durissimo. Per gli chef (non quelli da tv, quelli veri, da fornello). Per il personale in cucina e per il personale in sala, quelli che ottusamente ancora chiamiamo camerieri. Un lavoro faticoso, spesso in condizioni difficili, in ambienti ristretti, bollenti, malsani, insicuri. Assodato questo, si aggiunge che le cose sono parecchio cambiate negli ultimi decenni. Nel dopoguerra non esistevano chef e i cuochi erano personaggi ignoti ai più, spesso rinchiusi in cucina per ore senza nessun affaccio sul mondo né nessuna fama. I camerieri, al contrario, almeno quelli dei migliori ristoranti, erano personaggi stimati, che avevano rapporti con i clienti e si costruivano una carriera solida. Non a caso spesso nei ristoranti migliori i camerieri avevano una certa età. La situazione in 40 anni si è ribaltata: i cuochi sono diventati star, chef acclamati e in alcuni casi ben pagati (solo in alcuni, naturalmente). E i camerieri progressivamente hanno perso di peso sociale e sono diventati avventizi: stare in sala non è più un mestiere da scegliere per intraprendere una carriera, ma un ripiego o un passaggio da compiere da giovani, per poi cercare altro.
Serve una rivoluzione degli orari e della mentalità
E qui siamo alla questione. Perché i giovani non vogliono più stare in sala? Perché hanno una considerazione sociale bassa e uno stipendio relativo altrettanto basso, talvolta bassissimo. Ma c’è l’altra questione, che accennava Lamantia. Quella della qualità della vita. Da tempo è cambiato il mondo, e il lockdown ha provveduto a cambiarlo ulteriormente, provocando un’ondata di dimissioni anche da lavori ben remunerati e di prestigio. Le persone, e in particolare i giovani, più sensibili al cambiamento, non vogliono più dedicare la vita al lavoro. Non vogliono sacrificare famiglia, hobby, tempo libero, amicizie (la vita, insomma) a un lavoro stressante e malpagato. Anzi, non vogliono più dedicarlo a un lavoro stressante, anche se ben pagato. E’ una rivoluzione degli stili di vita che non è ancora entrata nei posti di lavoro. Così come le aziende faticano ad accettare lo smart work, i ristoranti faticano ad accettare condizioni di lavoro migliori: ambienti più sani, paghe dignitose, orario di lavoro non chilometrico e flessibile. Fin quando non cambierà la mentalità di proprietari e chef, non si troverà personale in cucina e in sala. Se cambiasse, le persone potrebbero decidere di dedicare una parte della loro vita in questo mestiere, di investirci tempo e aspettative.
Naturalmente, se vogliamo, possiamo comunque ridurla alla solita coppia di argomenti triti e ritriti: giovani fannulloni e imprenditori sfruttatori. Ma forse, così, non se ne esce e si alimenta solo un inutile populismo gastronomico, senza affrontare il vero problema.