Dino Briglio dell’Acino: “Il conto vendita? Non mi interessa, dei miei clienti conosco le idee e la musica che ascoltano”

Dino Briglio dell’Acino ci parla di uomini, di lombrichi, conto vendita, sveltine e amore vero. Dino Briglio Nigro è un vignaiolo calabrese. La sua azienda agricola L’Acino è a San Marco Argentano (CS), dove dal 2006 coltiva  Magliocco, Guernaccia Bianca, Mantonico e altri vitigni calabresi. Ci siamo confrontati con lui su un po’ di argomenti: sulle conseguenze immediate della crisi Covid-19, sul bisogno di solidarietà che si sente al momento in tutta la filiera, fino a che cosa sia il vino buono.

Dino, che aria si respira in Calabria?  So che esporti una buona parte dei tuoi vini in Giappone, ma anche in Francia e in Ucraina. Come sta andando? È  il caso di allarmarci?

“Sono tornato da Kiev da poco più di un mese, subito prima che ci ordinassero di chiuderci in casa. La sera prima del volo ero a cena con Franco Terpin, Maurizio Ferraro e Roberto Porciello di Cascina Boccaccio. Eravamo stretti stretti, ci siamo sbaciucchiati e abbiamo cantato Bella Ciao. (ride).
Mentre ero lì mi avevano scritto i miei importatori da Regno Unito, Francia e Copenaghen per sapere la disponibilità in magazzino dei vini. La vita scorreva normale, i ristoranti erano pieni e stavano per farmi ordini che in un baleno sono sfumati. Un ordine da Montréal di 600 bottiglie è stato sospeso e le bottiglie ora aspettano all’ingresso della cantina. I nostri vini sul mercato canadese sono venduti in ristoranti e wine bar, che sono chiusi, non sugli scaffali della Saq (la società provinciale, monopolio di stato, che gestisce il commercio degli alcoli in Québec) e quindi non ha senso spedire. In Giappone, anche se i ristoranti sono rimasti aperti, già un mese fa registravano un calo degli avventori e alcuni hanno chiuso volontariamente, come qui all’inizio dell’emergenza.
La paura del contagio non passerà facilmente, a prescindere dalle decisioni dei governi. Stanno cambiando le abitudini e i consumi. Pare che i nostri vini siano generalmente longevi, avremo pazienza e aspetteremo che arrivi una cura. Per quanto si possa aumentare l’autoconsumo non siamo garagisti ed abbiamo qualche centinaia di ettolitri da consumare. Un po’ tanto”.

Da un po’ di tempo  sei attivo per vendere le tue bottiglie, viaggi molto e punti sul contatto diretto. Al momento, si nota un crollo della catena produttore-distributore-consumatore. Alcuni distributori vendono ai privati a prezzi concorrenziali con le enoteche e anche i vignaioli si stanno attrezzando per la vendita ai privati. Che ne pensi  di questo clima à la homo homini lupus? Cosa si può fare per essere tutti un po’ più solidali l’uno con l’altro? E a proposito di solidarietà: un commento sull’intervista allo chef Christian Costardi di Repubblica. Due parole che hanno colpito molti (la ri-tocco piano): Conto Vendita.

“Non conosco i fratelli Costardi e non so se finora siano stati corretti dal punto di vista commerciale con i loro fornitori. Certamente il vignaiolo che accettasse condizioni di conto vendita e quindi tempi di pagamento indefiniti non potrebbe essere corretto e preciso con i propri fornitori di tappi, bottiglie ed etichette, a meno di non essere ricco di famiglia. Io non lo sono ma posso vantarmi di pagare i miei collaboratori ed i miei fornitori in tempi corretti.
Questo è un punto importante del mio lavoro, tanto quanto non usare chimica in vigna e in cantina. La mia è una famiglia di contadini ed emigranti , rispetto i lombrichi ma ancora di più gli uomini e purtroppo non è scontato. Quella di Costardi è stata un’uscita che ha destato grande sorpresa tra i winelover ma non tra chi fa questo lavoro. L’abitudine di pagare il vino “a babbo morto” è una prassi abbastanza consolidata negli stellati per il “posizionamento”. Concetto di cui francamente non mi frega niente, non mi è mai fregato nulla. Così come non mi interessano medaglie e punteggi e infatti non invio campioni alle guide da anni, semplicemente perché concordo in pieno con quello che è scritto nelle retroetichette di Augusto Cappellano.

 

Chiediamoci però se certe cose sono viste come normali o possibili.  Di prendere in conto vendita il pollo di Bresse non verrà mai in mente a nessun cuoco, mentre ci sono tante cantine che cedono proprio per il raggiungimento di questo “posizionamento”, svilendo il frutto del proprio lavoro. Attualmente credo che il mio vino non sia sulla carta di nessuno stellato italiano. So che il Chora bianco è da qualche anno in carta da Septime e mi fa senz’altro piacere ma mai quanto qualcuno che mi dice che aver bevuto un nostro vino gli ha fatto ricordare il vino che faceva il nonno. Lì scattano emozioni e ricordi, e questa è una gran cosa”.

Stefano Amerighi aveva raccontato a Puntarella di un progetto di autodistribuzione (halarà). Ma non solo: halarà sarebbe stata anche «una piattaforma logistica e di idee, di condivisione delle energie.»  All’origine di questa necessità c’era (e c’è)  l’ecosostenibilità della filiera, un problema imprenscindibile da qualsiasi idea di vino naturale. «Trasporto e spedizioni sono il nostro principale problema ambientale. Essere vignaioli naturali vuol dire anche questo. Il concetto di vino naturale è acquisito. Andiamo avanti, affrontiamo distribuzione, prezzo, trasporto (…) Perché la produzione deve essere slegata dalla distribuzione?».  Si tratta di argomentazioni quantomai attuali, che ne pensi?

“Sicuramente è un progetto interessante ma non è facile dal punto di vista organizzativo. Noi abbiamo  lavorato un anno con un distributore nazionale, credo il 2013, e poi siamo usciti. Ci dava garanzie di un’espansione su tutte le regioni italiane, ma non funzionava per tanti motivi che sarebbe lungo e noioso spiegare. Sono stato io a voler fortemente uscire mentre i miei due soci di allora erano più titubanti. Adesso a parte Milano, lavoriamo direttamente con un po’ di clienti in tutta Italia senza nessuna mediazione. Il vino è di chi lo produce e non del distributore. I clienti sono amici, bastano un paio di messaggi con Valerio di Taverna Cestia per fare un ordine. Di chi vende il mio vino quasi sempre conosco che musica ascolta e le idee politiche, non è un rapporto puramente commerciale. In questi anni sono rimasto povero ma certamente sono stati costruiti tanti rapporti. Saro e Bea de Il Sorpasso di Ferrara o Mario e Stefania di Vineria Est di Bari non cambierebbero i vini de L’Acino con quelli di una cantina che propone il conto vendita e sanno quanto io sinceramente amo il loro modo di lavorare. Ma sono tante le contraddizioni che popolano quotidianamente il nostro mondo”.

Ricordo di aver avuto un’accesa discussione con il mio capo sul Chora Bianco, un bianco da tutti i giorni, ma anche un vino-camaleonte che cambia ogni anno nel rispetto dell’annata, ed è facile che questo metta in crisi più di qualcuno. “Chora” è un termine greco di difficile o impossibile traduzione che Platone usa nel Timeo per cercare di afferrare quello “spazio potenziale, quel ricettacolo in cui la forma dispiega la sua azione.” Per me questa definizione è stata sempre legata a doppio filo con quella di vino naturale. Tutti i vini che ho amato, il cui ricordo conservo gelosamente, avevano quell’eccedenza, quel qualcosa che sfugge alla materia ma che allo stesso tempo la plasma, in cui la stessa materia si trova come dire: inzuppata. Ora, aldilà delle pippe mentali di chi ha fatto il classico:  Che cos’è per te il “vino buono”?

“Un vino è  buono quando finisci la bottiglia in un attimo, quando in due la bottiglia da 0,75 è troppo poco. Sto aumentando la produzione di vino in magnum, perché penso che una magnum sia per due ma anche per quello che resta. Ti spiego: quando resta qualche bicchiere sul fondo della bottiglia si beve il giorno dopo e nel caso di un vino vero il giorno dopo (ma anche dopo quattro o cinque giorni) sarà diverso, anche più buono. Questo perché avremo avuto l’opportunità di sperimentare il suo sapore durante un arco più lungo di tempo. Da quando nasce nel bicchiere alla normale degradazione che avviene col contatto dell’ossigeno nel tempo. Ci darà tante sensazioni diverse e questa è più o meno la differenza che c’è tra una sveltina e una storia d’amore”.