Røst Milano, la cucina brutalista e senza gerarchie che indica una strada alle nuove trattorie

Røst Milano, la cucina brutalista e senza gerarchie che indica una strada alle nuove trattorie Cosa mi piace di Røst, penso mentre ci siedo in questa saletta calda, stretto stretto tra i tavoli (troppo stretti, in tempi di Covid)? L’atmosfera, certo. Il servizio, gentile e competente, certo. E naturalmente il cibo, la qualità della materia prima. Ma questa volta, se provo ad andare più a fondo della sensazione piacevole di benessere, c’è anche quella della novità. Di qualcosa che non c’era, o che se c’era non era messo così a fuoco come in questo ristorantino aperto da un paio d’anni.
Røst è un posto nuovo, luminoso, che magari inconsapevolmente indica una strada da percorrere.

Un menu corto, destrutturato

Quello che piace è soprattutto il menu, il modo in cui è pensato, elaborato e poi messo in pratica. Un menu corto, destrutturato, non classificato. Da tempo la ristorazione moderna sta provando a liberarsi dalla gabbia dei formalismi storici, della tradizione asfittica, dell’immobilismo gastronomico e culturale. Il recupero delle trattorie antiche è stata a volte un’operazione meritoria di rivitalizzazione delle ricette di una volta, ma troppo spesso si è tradotto nello sfruttamento commerciale della mitica cucina della nonna, povera nonna inchiodata in cucina, proprio lei che non ha mai saputo cuocere un uovo. L’alternativa praticata è stata spesso una corsa alla modernità minimalista che, per fortuna, gli anni ’80 e ’90 hanno sostanzialmente seppellito.

La cucina ancestrale di Trippa

Poi è arrivata Trippa e tutti hanno gridato al miracolo. Qualcuno ha storto il naso, pensando cos’avranno mai inventato questi signori, questi hipster tatuati, che scrivono libri con la colonna sonora di Tommaso Paradiso. Naturalmente niente di decisivo per le sorti dell’umanità. Non sono Pasteur e neanche Escoffier. Hanno però messo a fuoco qualcosa di cui si sentiva il bisogno e che era rimasto ancora nel magma delle intenzioni un po’ confuse. Una ristorazione contemporanea, divertente ma solida, basata sulle materie prime, sulla sostanza, eliminando gli ornamenti leziosi, i formalismi buoni per provare a conquistarsi la stella Michelin o per estasiare i cultori dell’estetica. La chiamano nuova cucina ancestrale, ma è solo il ritorno alla potenza della terra, il riemergere degli animali in cucina, non più impacchettati e sterilizzati, ma riconsegnati alla loro brutale bellezza, alla violenza delle viscere, del quinto quarto, delle frattaglie.

La Gam di Roma e quella sensazione nuova

Cosa c’entra in tutto questo Røst? Poco, se pensiamo al quinto quarto, molto se pensiamo al filone di quelle trattorie contemporanee che provano strade nuove, non azzardate, che uniscono la solidità della cucina alla forza lieve dell’esperienza gastronomica e della condivisione. Røst ha un menu corto, ma non cortissimo, che abolisce la divisione tra primi piatti, secondi e contorni, e ha qualche sottotitolo che sembra messo lì più che altro per divertissement e per sollievo grafico: I nostri classici, Dell’Affetto e della Cremeria; dal Forno ai Fornelli. Solo la voce Dolci, non a caso tutta in maiuscolo, ricalca un menu tradizionale. Il resto è privo di gerarchia: è un menu democratico, orizzontale. Viene in mente l’abolizione delle sezioni fatta dalla direttrice del Galleria d’Arte Moderna a Roma Cristiana Collu, che prima disorienta ma poi ti dà un’esperienza nuova, originale.

Tagliando fiori, preposizioni (sì, è Jannacci)

Interessante anche il modo in cui vengono chiamati i piatti. Ricordo ancora l’esilarante invettiva satirica di Valerio Visintin contro Pietro Leeman, patron di Joia e i nomi dei suoi piatti: «Mi ha pensato Fabrizio”, “Appetitoso prima, goloso dentro, persistente poi”, “Contatto e consenso” oppure “Gong». Qui siamo all’opposto. Non c’è nulla di evocativo, di metaforico. Si torna alla sostanza delle materie prime, elencate seccamente ognuna con la sua maiuscola, evitando perfino preposizioni e congiunzioni, come a dire che ogni materia ha una sua dignità e una centralità, non è un accompagnamento, un ornamento fine a se stesso, un complemento. Leggiamo  «salsiccia, cicoria, fiore sardo». La chef la chiama cucina circolare. Bello no? E’ come se lavorare per sottrazione, dopo tanta enfasi culinaria, ridonasse ai piatti quella potenza primordiale che si era persa nei meandri dei virtuosismi lessicali (un altro esempio simile è il menu di Immorale).

Leggendo il menu, ci viene la Bavetta

Guardiamo ancora il menu, ideato dalla chef veneta Lucia Gaspari. Come abbiamo detto, non ci sono primi, secondi e contorni. Dopo i due Classici, i mondeghili (solo due per 5 euro, buoni ma senza arrivare alle vette raggiunte da Cesare Battisti al Ratanà) e un denso e intensissimo baccalà mantecato (8 euro), ci sono la Pancetta di Anselmo Bocchi (11 euro) e «il Parmigiano 24 mesi Vacche Rosse, miele d’acacia».

Poi eccoci nel cuore del menu.  Subito resto spiazzato. «Carote di Polignano, yogurt, sesamo» (11 euro). Mmh. Che roba è? Dove vogliono andare a parare? Proseguiamo. «Sedano rapa alla vaccinara» (13 euro). Eccoci. «Crema di fave di Carpino, Puntarelle» (11 euro). «Lingua sfilacciata, Cappuccio viole, Melo decio di Belfiore, Fondo bruno» (14). Li leggo tutti ad alta voce (scusate commensali), tanto è bello anche solo sentire il suono dei piatti, con immediato rimando olfattivo, premonizione dei sensi. «Bavetta, Patata della Sila, Senape in grani, Fondo Vegetale». «Cotechino di Carlo Alberto, Lenticchie di Castelluccio».

Ceci n’est pas un Nebbiolo, è un Roero di Oggero

Qualche avventore burbero e tradizionalista ogni tanto si irrita, quando vede la specifica delle origini. «Ma chissenefrega se il cotechino è di Carlo Alberto, se anche fosse di Peppino non mi fregherebbe nulla, basta che sia buono». Va bene, ci sta, ogni tanto ci spazientiamo anche noi. Però poi pensiamo che è bello che ogni ingrediente sia nominato. Nomina sunt consequentia rerum. Non esistono la lenticchia, il pistacchio, la patata, il pomodoro, la pasta. Così come, in ambito enologico, non esistono il Merlot, il Cabernet, il Nebbiolo. Esiste quel Nebbiolo, così come qui da Røst esiste questo splendido Roero, che è sì un nebbiolo, ma non delle Langhe, del nord del Piemonte. E non un Roero qualsiasi, con la sua bella denominazione, ma il Roero di Alberto Oggero. Un colpo di fulmine. Una volta si sarebbe detto: «Vorrei un rosso». Poi si è passati a: «Mi piacerebbe un nebbiolo». Poi a: «Avete un Roero». Infine, finalmente, a «prenderei il Roero di Alberto Oggero. Che annata avete?». Perché le cose sono infinite e infinitamente diverse e conoscerle, dargli un nome, le fa esistere e ce le fa godere appieno. Non è fighettismo, non è spaccare il capello in quattro, è sapere cosa si mangia e cosa si beve e godere nella consapevolezza, prima di essere sopraffatti dal Roero.

La chef Lucia Gaspari si gode lo spettacolo

Dove eravamo rimasti? Mi sto dilungando. Voi direte: ma la sbobba è buona? Ottima, direi. Quella Bavetta, che è un taglio povero, che arriva dai muscoli addominali del manzo, è una meraviglia per i sensi. La salsiccia è il comfort food che aspettavi e la «Torta di riso, Crema di latte», una vera bomba. Piace anche l’originalità della materia prima, la mancanza di banalità nella scelta dei piatti. Ingredienti puri, essenziali, fermentazioni, lavorazioni pulite. Un eco della nuova cucina scandinava, da cui arriva il nome. Una cucina brutalista, sobria, dove la chef sembra stare un passo indietro, come se si godesse lo spettacolo dei suoi piatti, come se si componessero da soli quegli ingredienti.

Affumicati ma felici

Resta da parlare dell’ambiente, dell’atmosfera. Se è vero che il cibo in un ristorante fa il 40 per cento dell’esperienza, qui funziona anche il resto. Perché noi siamo fatti della materia dei sogni e delle emozioni, oltre che da quella delle salsicce. I difetti non mancano: l’eccessiva intimità, abbiamo detto, e anche una certa affumicatura che ti resta addosso dalla cucina, in mancanza di ricircolo d’aria. La sala è bella. Entrando c’è una sorta di «pianta» del vino, con tutte le bottiglie rovesciate dentro, e il bancone che occhieggia quello di un bar, con i bicchieri in sospensione. Tavolini nudi di marmo verde, pareti calde rosso “marsala”, piatti di ceramica con una serie di frasi di produttori di vini artigianali, divanetti di velluto. Calce, ottone, rovere. Pavimenti in porfido antico.

Quell’espressione un po’ così

Si esce con quell’espressione un po così, che abbiamo noi, dopo essere stati a Genova. Come se fossimo usciti dall’abbozzo di quella che potrebbe essere la nuova trattoria contemporanea, l’equivalente della bistronomie francese. Come quando uscimmo da Consorzio a Torino, dal già citato Trippa, dal per ora defunto Mazzo a Roma o dalla romana Trattoria Pennestri.

E’ bello pensare che là fuori c’è qualcuno che, sulla cucina, la pensa come Annibale: “O troveremo una strada o ne costruiremo una”.