I conti con l’Oste di Tommaso Melilli, folgorante esordio letterario di un giovane chef

I conti con l’Oste di Tommaso Melilli, folgorante esordio letterario di un giovane chef. La prima colpa di Tommaso Mellilli è di scrivere cose talvolta anche banali che però all’olfatto profumano di fresco e al gusto sono saporite e croccanti. Non sembra importare granché l’impiattamento, e invece conta eccome. C’è da essere sempre cautamente diffidenti verso i giovani troppo talentuosi. La seconda è che stavo serenamente addentrandomi nella trama di Misteri, tomo norvegese del grande Knut Hamsun,  chiedendomi cosa ci fa una boccetta di veleno nel panciotto di Joahn Nagel, quando ho inopinatamente aperto il suo “I conti con l’oste“. E non l’ho più abbandonato.

“Non solo i buoni menu ma anche le storie che mi piacciono di più sono fatte così: una cosa fritta, una marinata, una bollita, un po’ di ricordi, un po’ di rabbia, non troppa nostalgia, ma comunque un po’ sì, sicuramente qualcosa di piccante, non troppi rimpianti, se possibile fare arrivare a un certo punto gli indiani, ma anche un po’ di sentimenti”.

Ne ho sentito parlare del Melilli, perché la mia amica Irene, grande esploratrice di talenti, mi ha segnalato un libro in uscita di questo giovane chef. Che palle, ho pensato, se sei chef che scrivi a fare? In libreria ho almeno venti libri di grandi chef divertenti come un riso in bianco, scotto, e piacevoli come un brodino di stelline, scotte. Poi, però, ho dato un’occhiata alle sue Tovagliette, su Rivista Studio, e alle sue ricette su Slate.fr. Il cipiglio infastidito (lo so, mi verranno le rughe) si è un po’ allentato leggendo la sua “cacio e pepe“. E, senza che ci fossero troppe somiglianze, il pensiero è volato a un maestro della scrittura intorno al cibo (non sul, proprio “intorno”): Aldo BuzziI conti con l’Oste di Melilli, folgorante esordio letterario di un giovane chef. Figuriamoci, mi sono detto, ma cosa vai a pensare. Aldo Buzzi. Che ci vuole a scrivere quattro stupidaggini in francese, facendo il gradasso con i parigini sulla cucina romana?

“Abbiamo bisogno dell’oste. L’oste ci guarda negli occhi per capire che cosa può fare di buono per noi. E c’è un motivo se ci guarda negli occhi: perché vuole capire cosa vogliamo, perché l’oste sa perfettamente che noi, cosa vogliamo, non lo sappiamo quasi mai”

Però, nel dubbio, ho acquistato e scellofanato subito,  con curiosità. E così, eccomi sul letto con il mio Hamsun da una parte e il sedicente chef-scrittore Melilli, impudicamente ritratto anche in copertina, dall’altra. L’amico Guido,  che mi ha visto in libreria con il Melilli sotto braccio (lui aveva Sherlock Holmes, “che vergogna alla mia età non averlo mai letto”), mi ha scrutato diffidente: “Cos’è? Un libro di cucina? Un romanzo? Un memoir?”. L’ansia tassonomica è la nostra rovina, ci piace mettere gli altri dentro delle gabbiette e scriverci un nome con il post it. Salvo poi scoprire che di nomi ne servirebbero una decina e ancora non riescono a descrivere nulla.

“La cucina resta un sapere istintivo, manuale, locale e folcloristico. Un’arte fondamentalmente analfabeta, non perché sia ignorante, ma perché non si esprime attraverso le parole ma attraverso un sistema di gesti”.

Le definizioni migliori di questo libro le ho trovato nella fascetta, giusto per incrinare il pregiudizio che le considera di solito un ricettacolo di banalità propagandistiche. Dice il fascettista che si tratta di un “romanzo di formazione” e anche dell'”autobiografia di una nazione“. Forse ignaro (ma forse no, è pur sempre Einaudi) che per Piero Gobetti, crudelmente preciso (ah, la tassonomia), l’autobiografia della nazione fu il fascismo.

“Ho cominciato a fare il cuoco perché volevo impiattare, come tutti. Compravo grandi piatti dalle forme strane e cercavo di scolpirci sopra goccioline di salse colorate. Poi mi è passata e mi sono messo a cucinare”.

Melilli parte dalla sua esperienza, di giovane aspirante bohèmien letterario a Parigi, improvvisamente convertitosi sulla via dei fornelli, per fare un viaggio nello spazio e nel tempo. Il giovane Melilli esplora se stesso, alla ricerca di un senso, e per farlo parte in un viaggio iniziatico che lo porta a vivere, più che a parlare, con alcuni dei cuochi più innovativi d’Italia e di Francia.  Lo fa con una sensibilità rara, un’ironia non di rado autoriferita e una competenza che ci portano dentro un mondo, quello della cucina e della storia della cucina e del gusto, che pensiamo di conoscere bene e non conosciamo affatto. Melilli lavora sul concetto di tradizione, di territorio, di innovazione. Concetti scivolosi, vaghi, irritanti per quanto sono stati usati e abusati. Cerca di capire il fascino delle trattorie di una volta, per scoprire che una volta non c’erano, e se c’erano non erano poi così affascinanti, se non nella nostra memoria. Ci racconta quel che qualcuno di noi sa, ma fa fatica a spiegare, cioè che la tradizione è un patrimonio da cui attingere ma spesso è anche un inganno della memoria, un espediente furbo del marketing. Racconta di quel paesino che adottò un salame d’oca fatto in casa, per farne un’icona della tradizione tra sagre e nostalgie immaginarie.

“Alcuni anni fa ho preso in gestione il mio primo ristorante e, il  secondo giorno, un cliente mi disse una cosa che mi turbò molto: “Fate una cucina di questo secolo,  ma avete dei vini del secolo scorso”.

Nel viaggio incontra alcuni dei cuochi e degli osti più rappresentativi delle nuove generazione di questi ultimi anni. Passa da Giovanni Passerini ad Andrea Gherra del Consorzio, da Diego Rossi di Trippa a Sarah Cicolini di Santo Palato, da Juri Chiotti del Reis a Paolo Lopriore del Portico, fino all’oste francese moderno per eccellenza, Pierre Jancou (Racines, Vivant). E parlando, spadellando, consumando mani e guanciali, prova a (ri)costruire la cucina in Italia, com’era, come sta diventa e come gli piacerebbe che diventasse.

“Io non sono quello che mangio: sono il mio piatto”

Dentro c’è tutto, l’impiattamento, il bollito non bollito di Bottura, il bue grasso di Roberto Liberati, quello “zabaione salato con praline di maiale fritto che è la carbonara”, il vitello tonnato e il “pane e figa” di Trippa, il broccolo fiolaro, la tuma patate e aioli, la vergogna nel non sapere usare una stufa, il Comtè di Marcel Petite, il brasato di Fassona al Ruché, i marubini in brodo, gli straciamüs. Alla fine, Buzzi c’entra poco. Non c’è la sua sprezzatura, il suo minimalismo, la sua genialità. Però c’è molto altro, c’è un po’ di Mario Soldati, un po’ di Joan Didion, un po’ di Anthony Bourdain (anche questa farina del fascettista) e molto di Mellilli, di un giovane cuoco che maneggia bene quel che scrive (non sappiamo in cucina, ma lo scopriremo) e riesce a raccontare come molti giornalisti e scrittori non sanno più fare e come quasi nessuno chef ha mai davvero fatto.
Va letto, per capire da dove veniamo e dove stiamo andando. Casomai andassimo davvero da qualche parte.

(Ora torno a scoprire che diavolo ci fa il veleno nel panciotto di  Nagel. Tra l’altro, vedi le associazioni casuali, Hamsun ha scritto uno dei romanzi più indimenticabili sul cibo, Fame, imperdibile).