Mangiare a casa in tempo di coronavirus, fenomenologia del cibo casalingo tra amatriciana e sughi pronti

Mangiare a casa in tempo di coronavirus, fenomenologia del cibo casalingo tra amatriciana e sughi pronti 

L’ultima cena (si fa per dire, si spera) l’abbiamo fatta da Rimessa Roscioli, già quasi deserta. Una cacio e pepe cremosa, sontuosa, commovente. Forse perché a un certo punto abbiamo saputo che non l’avremmo mangiata fuori per un po’. E noi le cacio e pepe fatte a casa, meglio di no. Ci siamo bevuti un bel dolcetto di Dogliani, della brava Nicoletta Bocca. E una vernaccia di Oristano, ossidata il giusto, per accompagnare il Comtè, grande formaggio a latte crudo della Francia Contea, nello Jura.  Tra una chiacchiera con la simpatica Nicole e un’altra, aspettando la cacio e pepe, è arrivata la notizia. Il presidente Conte annunciava la chiusura serale dei ristoranti in tutta Italia. Severo ma giusto. Giustissimo. Il virus è un flagello e noi lo temiamo e siamo rispettosi delle regole. Ma siamo rimasti intontiti, a guardare in dissolvenza gli ultimi scampoli di vita sociale. Attanagliati alla gola da una nostalgia struggente, preventiva.

Il giorno dopo, eccoci a casa. Ci aggiriamo con circospezione intorno al frigor, oggetto totemico mai sondato fino in fondo, con angoli reconditi in cui non abbiamo mai avuto il coraggio di avventurarci. Superiamo i brividi di paura e, muniti di guanti di lattice monouso, rimuoviamo grumi verdastri, pere già dipinte da Cezanne, formaggi verminosi. Da una parte, altero e dignitoso, se ne sta un Actimel dello scorso secolo, quando ancora pensavo che i fermenti lattici potessero aumentare le difese immunitarie dai virus. Finisce nel secchio, insieme al resto.

Poi, eccoci alla Pam. Mille sensi di colpa: il cassiere senza museruola, assembramenti perniciosi, colonie di clienti con tosse secca inquietante. Facciamo rifornimento, pensando che, certo, si poteva andare a una bottega di quartiere di qualità, a un negozio gourmet, a un formaggiaio come si deve, a una gastronomia gastrochic. Macché, troppo lontano, ce ne stiamo acquattati nella giungla della Pam, guatando insalata icebergsmorti lattughini non più al 50 per cento (perché la merce ora gira). Schiacciamo la plastichetta protettiva per capire lo stato di deterioramento terminale della foglia.

A casa, svuotiamo tutto nel frigo. Finalmente gonfio, ricolmo, colorato, gioioso. Pensiamo che è arrivato il momento di impastare, magari una bella focaccia di farina integrale con lievito madre essiccato. Chissà se è facile fare pasta e patate, come la mangiavamo da Mattozzi. Facciamo tanti progetti, entusiasti, pieni di idee. Ma è la prima sera, e serve un comfort food. Optiamo per un’amatriciana. Il guanciale c’è. Recuperiamo la ricetta originaria del Comune di Amatrice, anche se lo sappiamo che è una cazzata, questa cosa dell'”originaria”. La ricetta dice di togliere il guanciale prima di mettere i pomodori a listarelle, “così rimane morbido“. Ma chi lo vuole morbido il guanciale? Ma perché? Croccante lo vogliamo, come all’OsteriaFernanda. Osteria Fernanda! Ci immaginiamo la sala buia, silenziosa. Cosa faranno ora quelli di Fernanda?

Già, che fine fanno i cuochi quando chiudono i ristoranti? Non vanno certo al laghetto di Central Park, gli sparano prima. Se ne stanno a casa e si cucinano piatti complicatissimi? O si riempiono di hamburger precotti e di crackers alla nutella? Dove siete, chef? Fatevi sentire, non sparite.

La salsa dell’amatriciana sobbolle. Abbiamo solo un Lambrusco rifermentato, ma è Castell di Salegg. Lo apriamo e inonda la cucina, con la sua esuberanza. Alla fine risulta splendido, vigoroso, pieno di quel coraggio che ci manca. Ce ne facciamo una mezza boccia. L’altra finirà in mattinata. I bucatini li affondiamo in acqua, con voluttà. Duecento grammi. Che faccio, lascio? E’ la prima sera di coprifuoco. Ci dobbiamo volere bene.

I giorni seguenti, l’idea di fare la pasta a mano finisce nel dimenticatoio. Sembrano passati anni. Il frigo si riempie di surgelati. Mai provato prima d’ora il sugo pronto. Ho trovato quello Barilla al super. Mi accorgo ora che è ai “pesti alla calabrese”. Pesti alla calabrese? Che il signore vi fulmini. Lo assaggio, non è neanche disgustoso. Scende bene se lo annaffi con un tre quarti di Nebbiolo Roccalini.

La sera si magna e si beve senza tregua.

Poi si cede. E’ uno degli effetti collaterali di questo maledetto virus, il meno grave naturalmente, ma pernicioso per la salute psichica di chi è costretto a compulsare i social. Con le dita impiastricciate d’olio, si comincia a postare senza ritegno. Foto di paste scotte con l’olio. Cotolette abbrustolite. Cicorie tristi e solitarie. Là dove si instagrammava la foto al ristorante, con ricette spettacolari impiattate da artista, qui si postano immagini sgranate, nella penombra del tinello.

Poi si accende il pc. Chissà se va ancora in onda 4 Ristoranti. “Ristoratori! Quanto abbiamo speso stasera”? Nostalgia canaglia.