Street food nun te reggae più: ma un ristorante vero no?

Street food nun te reggae più Le mode passano, certo, ma nell'attesa si soffre e si impreca parecchio. E così, da qualche tempo scorro la lista delle nuove aperture romane, puntigliosamente raccontate da questo sito. E mi rattristo, grugnisco, scalpito: street food, solo dannatissimo street food modaiolo. Intendiamoci, nulla in contrario in linea di principio. Se non fosse che questa parola ameba ormai dilaga e con lei gli sgabelloni alti, i tabelloni luminosi, le orripilanti foto dei piatti da locale per turisti. Di ristoranti veri, nuovi, buoni, come nota anche Marco Bolasco, neanche l'ombra (salvo rarissime eccezioni, vedi Misticanza. Tocca andare a Milano (che ormai surclassa la Capitale)? 

Una volta ci andavano i regazzini e gli adulti squattrinati o anticonformisti.
Ora ci vanno tribù di
hipster e foodies e foodsters e tutta quella roba là.
Ottimo il trapizzino, per carità, vanno benissimo i nuovi Nanù, Esco Sazio, Banco, Zoè, Finger e via dicendo.

Ma noi, noi che aborriamo aperisfizi e stuzzichini, insalatone e gastropub, bagel e juice bar, crudisti e vegani, dove andiamo? 

Noi, dico, che amiamo sederci a tavola, preferibilmente ricoperta da una tovaglia, non di plastica.
Noi che amiamo i ristorantini, non necessariamente familiari, ma a gestione affettuosa e appassionata.
I locali non multifunzionali – quelli che sono bar, ristorante, bistrot, trattoria, pizzeria, libreria, supermercato, barbiere, ciclofficina – ma quelli che ti danno un paio di cose, ma fatte bene: cibo e vino, cucinati e serviti con passione e cura, attenzione e competenza. 
Noi, dico, che non ne possiamo più di hamburger, polpette, estratti di frutta, green salad, cheesecake, wrap, rolls. 
Noi dove andiamo?
Un ristorante vero, nuovo, bello, buono, confortevole, a misura di cliente, ce lo volete aprire?