Vino, l’arte dell’assaggio. Gravner come Picasso

Vino, l’arte dell’assaggio. Gravner come Picasso. Lesson Two / Dove si spiega che degustare non vuole dire tracannare – ma valutare con attenzione – e si dispensano alcuni accorgimenti per iniziarsi all’arte dell’assaggio, che altro non è se non educazione all’edonismo. Quello che il Kamasutra è per il sesso. Con questo spirito di scoperta meditabonda, si assaggia qui una ribolla di Gravner.

Mi ha sempre fatto un po’ ridere il termine “degustare”. Mi fa venire in mente attempate signore dell’alta società che sorseggiano un tè e assaggiano pasticcini con fare snob e la bocca a culo di gallina. E mi fanno altrettanto ridere – e anche un po’ rabbia – quelli che alle degustazioni, che siano di cibo o di vino, non degustano affatto ma ingurgitano e tracannano. Anzi, a volte li vedi che stanno lì, col braccio teso per farsi versare da bere – “mi dia UN bianco” – e che, avuto l’assaggio, occhieggiano sommelier e vino per rimarcare l’esiguità del sorso versato. Prima di bere si esibiscono in volteggi pirotecnici del bicchiere tenendolo per il bevante – manco fosse un cognac da humaniser – e infine, senza affatto odorare – il che rende del tutto vano il precedente piroettare del calice – assaggiano con foga occhieggiando ancora il “micragnoso” sommelier che ha l’unica colpa di fare il suo lavoro.Ora, degustare non significa bere, significa semmai assaggiare per valutare, se si tratta di una degustazione tecnica, oppure assaggiare per interpretare un vino in maniera di poterlo apprezzare maggiormente. Imparare l’arte della degustazione, tanto più quando lo scopo è del tutto edonistico, è un modo di educarsi al piacere, di trarre la maggiore soddisfazione possibile da ciò che si ha nel bicchiere. La degustazione è ricerca e scoperta, ma soprattutto sensorialità. Un gioco in cui i sensi si rincorrono e si uniscono in una sinestesia che ha come fine il piacere. La tecnica della degustazione sta al vino come il Kamasutra sta al sesso, per dirla prosaicamente.

E un bicchiere di vino può essere come un quadro o come una bella fotografia. Di fronte a un Caravaggio o ad una veduta aerea di Bertrand ci si può emozionare in maniera diretta e intuitiva, al semplice impatto. Per un guizzo di luce che illumina un viso, per un tempio giordano colto dal cielo. Può essere un’emozione improvvisa e inspiegabile, un coup de foudre. Lo stesso può accadere per un vino. Magari su un tavolino che guarda il mare ci si innamora di un bianco ghiacciato e profumato, oppure di un rosso corposo e avvolgente di fronte a un bel camino acceso d’inverno. Ma a volte il bello e il buono non arrivano in maniera diretta e immediata. A volte necessitano di esperienza e conoscenza. A volte, hanno bisogno di essere capiti e compresi poiché hanno una complessità criptica che va esplorata col filtro dell’intelletto.


Stavolta prendiamo un Picasso. Magari le Demoiselles d’Avignon. Cinque puttane nude e deformi. Un rovesciamento completo dei canoni della prospettiva rinascimentale. Per apprezzare il lavoro di sperimentazione che nasconde il quadro sarà necessario conoscere quanto c’è dietro. E allora nei volti di quelle donne spunteranno profili egizi, il primitivismo dell’arte iberica, le scene orientali di Ingres e soprattutto le Grandi bagnanti di Cézanne. Il percorso dell’artista, la “poetica” del pittore, diventa fondamentale per apprezzare davvero l’immagine che si ha davanti. La conoscenza svela il ragionamento che ha portato a quel risultato, l’impressione soggettiva ricercata da Picasso, l’autonomia del suo linguaggio pittorico rispetto alla realtà, l’aspirazione – e questo è quanto di più legato al discorso vino – a rappresentare sulla tela un’emozione, un sentimento.
Così oggi degustiamo un vino che non vi piacerà. E’ un vino estremo, che non si concede.

Qualcuno dirà che è un vino radical-chic, di quelli che piacciono solo ai sommelier o che forse non piacciono nemmeno a loro. Che lo dicono solo perché “fa fico” tessere le lodi di un Valentini o di un Gravner, di un Radikon o di un Pepe, produttori estremi e di certo discutibili.
Discutibili in quanto oggetto di critica, in grado di suscitare conversazioni, un po’ come lo spremiagrumi di Philippe Starck. Vabbè, assaggiamo ‘sta ribolla di Josko Gravner. Partendo da un presupposto: il vino non è oggettivamente buono o cattivo. Può essere tuttalpiù oggettivamente cattivo se ha qualche difetto, se è ossidato, se sa di tappo. Ma non può essere oggettivamente buono. Può essere corretto, e può piacere e non piacere. Non è solo una questione di gusto ma anche, soprattutto, di testa. Come un profumo. Io amo alcuni profumi non perché siano buoni ma perché agganciano immediatamente un ricordo. Amo Monsieur de Givenchy perché ogni volta che lo sento la mente torna a mio padre, ancora in salute, che si passa sul viso l’acqua di colonia prima di uscire per andare in ufficio. Amo l’odore/sapore del “Suvlaki con pita” perché mi ricorda infantili serate estive nelle isole greche. E amo pure l’odore sporco e fumoso dell’aria calda della metro parigina – che non è un “buon” odore – perché lo associo ad un periodo di vacanza e sentimento.
La storia di Gravner comunque ve la racconto un’altra volta. E non vi dico cosa c’è dentro il bicchiere, soltanto che è un vino bianco con un profilo da rosso, che è uno dei pochi bianchi “tannici” d’Italia, che ci senti dentro note di cera d’api e che se lo guardi sembra un passito. Se avete 50 euro da spendere per un vino che non capirete acquistatelo e assaggiatelo. Sennò, per ora, accontentatevi di sapere che è come un Picasso cubista. Prima bisogna farsi le ossa con la storia dell’arte, poi studiare la “poetica” dell’autore. Solo a quel punto, assaggiandolo, ne scoprirete l’emozione e il sentimento.

di Livia Belardelli

(continua) qui la prima lezione di Livia’s Wine