Tre Bicchieri, in morte dei sommelier

Li vedi e ti viene voglia di piangere. Stanno lì, buttati su un banchetto fuori dalla porta del grande salone al secondo piano, senza speranza. Se non fossero vestiti come dei presidi sembrerebbero dei bidelli. Sono diffidenti, come tutti gli emarginati, e sempre apparentemente sull'orlo di reagire a qualche ingiustizia. Sono un uomo e una donna (e la donna è anche molto bella, oltre che francese) ma questo è un dettaglio che affoga in silenzio nella mestizia della scena. Sono "quelli" del tappo a vite. Rappresentanti, cioè, della ditta che produce tappi a vite ("chiusure irriempibili", si dice in gergo) per bottiglie di vino. Sono loro i veri protagonisti, anzi, gli eroi del vino italiano. 

Di per sé non ci sarebbe niente di strano o di eroico nel produrre tappi a vite. Se non fosse che qui siamo nelle sale della Città del Gusto del Gambero Rosso e che siccome c’è la premiazione dei vini che hanno meritato i Tre Bicchieri la sala è gremita di sommelier. Ora, per capire la portata di dramma e conflittualità della situazione, occorre sapere che un sommelier sta a un tappo a vite come un postino sta a un sms. Non è odio o incompatibilità, è molto molto di più.
È l’espressione relazionale dell’eterno conflitto tra il nuovo e il vecchio, che poi si declina in mille sfumature semplice/complesso, veloce/lento, basso/alto. Qualcuno si inventa qualcosa e di colpo quello che serviva prima non serve più e i vecchi sacerdoti di quel qualcosa diventano ferri vecchi. 
E’ successo un sacco di volte nella storia, l’ultima è stata quella del motore a scoppio, e lo sguardo che maniscalchi, sellai e cavalieri rivolgevano a quei cosi con quattro ruote che sobbalzavano per gli sterrati doveva essere molto simile a quello che adesso, passando altezzosi davanti al banchetto fuori dalla porta, i sommelier col tastevin e il cavatappi rivolgono ai due rappresentanti di chiusure irriempibili: «Ci odiano – scuote la testa con cortesia, quasi con comprensione Claudio Lepore, area manager di Guala Closures Group – pensano che per colpa dei nostri tappi il loro ruolo nel mondo del vino sia destinato ad essere ridimensionato… Per questo non ci fanno entrare lì dentro».

Dice «lì dentro» e alza il mento a indicare al di là di una vetrata, la grande sala della manifestazione, dove i migliori vini del paese e i loro tappi di sughero danno bella mostra di sé, dove i produttori sorridono come padri in sala parto, dove i sommelier straparlano, e dove esperti e millantatori esibiscono il proprio sapere cinguettando come cardellini nella stagione dell’amore, felici delle loro “borsette porta bicchiere” griffate dal Gamberone, e della considerazione che sperano di ottenere presso l’imprecisato interlocutore di turno.
Scene di ordinaria enologia che, riflesse negli occhi di Lepore al di là della vetrata, appaiono però come virate a seppia, velate da una patina di polvere, proiettate da una pellicola Super 8: «Il futuro siamo noi – dice a voce bassissima – E sa perché? Perché il vino ha una strana caratteristica commerciale, si produce in Italia e in Francia ma si vende nei paesi anglosassoni. Sono loro che fanno il mercato alla lunga, non noi. E loro sono pieni di gente pragmatica che bada alla sostanza, non alla forma. A loro del tappo non gliene frega niente, a loro gli interessa che il prodotto sia buono e ben conservato. E per questo i tappi a vite sono infinitamente superiori».
Il ragionamento non fa una piega. I dati lo confermano. E di colpo non sono più i due rappresentanti di chiusure irriempibili a suscitare commiserazione.
Il presente è dalla parte sbagliata della vetrata.