Il futuro della ristorazione, la crisi dei fine dining e un dibattito viziato

Il futuro della ristorazione, la crisi dei fine dining e un dibattito viziato. Il dibattito sulla ristorazione rischia di sembrare stucchevole,  se non altro perché finora a intervenire sono stati i grandi chef più o meno stellati, gli “intellettuali” di questi nostri giorni disgraziati, che dall’alto di modelli largamente marginali e irraggiungibili ai più, predicano il ritorno a un modello di ristorazione essenziale, tipo trattoria. Modello che non hanno mai praticato e non praticheranno neanche in futuro, perché semplicemente sono inadatti, hanno sviluppato concept e abiti mentali lontani anni luce da quello delle osterie popolari e dei ristoranti “quotidiani”. Niente di male: sarebbe come se avessimo chiesto a Proust di scrivere romanzi popolari, ad Antonioni di girare cinepanettoni o gialli alla Montalbano. Ma forse, non sono loro i più adatti a raccontarci che sarà nel mondo, così complesso e variegato, della ristorazione.

Lasciamo stare, poi, il caso di quegli chef-baroni che colgono l’occasione per regolare i conti con quei giovani che hanno avuto l’ardire di mettersi in competizione con loro (vedi Igles Corelli qui).  Naturalmente, ci sono anche grandi chef con una capacità di visione che va oltre la loro cucina stellata. E’ il caso del newyorchese David Chang (Momofuku Noodle Bar) che con un’intervista al New York Times Magazine, ha gettato molti nello sconforto. Il futuro che vede Chang è quello della sparizione di molti ristoranti di fascia media,  dell‘impoverimento della diversità culturale ed etnica della ristorazione americana, a tutto vantaggio delle grandi catene e dei modelli più sostenibili e meno di qualità. Per Chang andranno in difficoltà anche i ristoranti a gestione familiare e il trionfo del modello bistecca/patate, con omologazione spinta e definitiva.

Sulla fine dei ristoranti familiari siamo meno d’accordo: è più facile che ce la faccia una famiglia che lavora a una piccola impresa, che un ristorante di fascia medio-alta, con 10-20 dipendenti e spese molto più elevate. Però Chang, sul resto, ha ragione. Come spesso accade, durante la crisi si verificano due fenomeni. I cattivi diventano più cattivi e i buoni mettono in luce tutte le loro qualità. E fin qui siamo a un livello antropologico. L’altro fenomeno, economico, è che i grandi diventano più piccoli e i piccoli spariscono. I ricchi si arricchiscono e poveri si impoveriscono sempre di più. E’ piuttosto banale la spiegazione: chi ha un’attività piccola e non riesce a pagare il mutuo, oggi, chiude. Chi è proprietario delle sue mura, e magari anche di altri dieci locali, può permettersi di chiudere e di non affittare a nessuno. Chi ha soldi, può permettersi di rastrellare locali ora, approfittando dei prezzi bassi degli affitti, inevitabili in questo momento. E’ così che procede l’economia nei momenti di crisi, con i grandi che mangiano i piccoli. E con i modelli più banali e omologati di ristorazione che vincono su quelli più articolati e interessanti. E’ un fenomeno che non riguarda solo la ristorazione. Prendiamo le librerie: tra una Feltrinelli, che ha grandi capacità economiche, e le piccole librerie cittadine, la prima ha certamente uno spazio di manovra più grande e sopravviverà più facilmente.

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Non bisogna dimenticare, poi, che questa crisi, con i risultati che abbiamo illustrato, si innesta su una situazione del mercato che già vedeva in difficoltà la fascia alta dei ristoranti “fine dining” e che abbiamo raccontato non molto tempo fa in quest’articolo. I ristoranti di fascia media e di buona qualità, quelli per intenderci dove si paga sopra i 50 euro e che non raggiungono le vette degli ultra gourmet stellati o para stellati, sono destinati a vivere giorni molto difficili. Lo spiega anche  il socio e manager del Cambio di Torino, Piero Pompili: “Spariranno molti ristoranti fine dining, più per gli eccessivi costi di gestione (che dovevano sopportare a fronte di risicati guadagni) che per la qualità della cucina a tutti gli effetti alta, ma senza un vero mercato”.

Pompili dice che questa crisi ha fatto scoprire come “fare il cuoco o avere un ristorante non è che fosse così figo e bellissimo come è stato dipinto dalla televisione negli ultimi anni”. Non ha tutti i torti. Il cuoco, quello vero, che sta in cucina e non in tv, fa un lavoro durissimo, spesso poco remunerato e con poche soddisfazioni. Il ristoratore ha spesso margini di guadagno bassissimi, rischi altissimi e continue vessazioni delle istituzioni, con ostacoli burocratici a volte insormontabili.

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Non è la fine dell’alta cucina, naturalmente. Sopravviveranno i ristoranti di fascia molto alta e accanto a loro molta ristorazione bassa, sia nel senso buono dii trattorie di cucina semplice ma di qualità, sia nel senso pessimo di ristorazione da fast food e di qualità infima. Non  è il caso di fare lezioni, né di spiegare a nessuno come dovranno impostare il loro locale, se avrà la ventura di sopravvivere. Ci aspettano mesi, anche dopo la riapertura, di misure contenitive molto punitive, con un numero di coperti molto ridotto e fatturati probabilmente inferiori alle spese. Quello di cui la gente avrà sicuramente bisogno, quando sarà davvero finito tutto questo, quando potremo tornare ad abbracciarsi, sarà un ambiente caldo, dove il servizio non dovrà essere inamidato e gelido, ma dovrà avere quell’approccio di empatia e di umanità che ci farà riscoprire il piacere di stare insieme, di condividere pensieri, emozioni e l’esperienza della convivialità, che ora ci sembra così remota.