“Ah, le trattorie di una volta”

 

 

Abbiamo raccolto il racconto, non si capisce bene se  un'elegia dei tempi andati o uno sfogo, di un amico milanese di Puntarella, trapiantato in città da anni, ma con ancora qualche problema di ambientamento. O forse ancora annebbiato da una serata innaffiata da troppo Shiraz.



Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta.

                                                                                                               Francesco Guccini

"Ah, le vecchie trattorie romane di una volta. Che nostalgia. Ah come erano buone, le vecchie osterie di una volta. Quelle dove la cuoca, un’anziana signora stanca della vita, ti serviva un ammasso di gricia affogata nell’olio antico di frittura. Quelle che non ti davano la ricevuta fiscale, e non te la danno ancora, ma un pezzo di carta bisunto,  commovente, con il conto  scritto a mano esbagliato. Quelle dove si cucina in casa, con una matrona anziana che prepara due piatti, sempre quelli, da 40 anni. Quelle dove l’oste brusco ti versa il vinaccio della casa, l’unico che c’è, senza fartelo assaggiare e ti tratta con familiarità: “Bello mio, se nun te piace vedi d’annattene affanculo”. Che meraviglia le tovagliette di carta macchiate di unto e di pomodoro acido, le pareti scrostate, i bicchieri sbreccati, le sedie tarlate e traballanti, l'aria di muffa e di cipolla. E come sono buone le mele cotte delle vecchie trattorie di una volta, anche se sono mele fuji, cinesi, comprate sottocosto dal pachistano all'angolo.
Ah, quanto si sta bene nelle vecchie trattorie di una volta, a Trastevere, seduti all’aperto sui sampietrini, guardati a vista dai simpatici ratti, curiosi e avidi dei nostri stessi piatti. Noi immersi nel cenacolo intellettuale, nel convivio proletario, nel raduno radical chic. E loro intorno, l’ambulante cinese che ti offre l’ultimo miracoloso aggeggio volante e un chitarrista messicano con poncho che canta solo per te “O sole mio”. Che commozione queste osterie tradizionali, per romani veraci, per il popolo,  e pazienza se poi sono tutti americani e giapponesi.
E quanto ci piace quell’approccio schietto, popolare, genuino, ruspante, quando accenni una protesta perché ti passano davanti in mille e tu stai aspettando da un’ora in piedi nonostante il dolore delle ginocchia della lavandaia. Quanta saggezza in quelle poche parole salaci dell'oste, schiette, dirette: “Aò, a bello…machittesencula…vedi d'annattene”.

 

A me piacciono gli anfratti bui / delle osterie dormienti / dove la gente culmina nell'eccesso del canto / a me piacciono le cose bestemmiate e leggere/ e i calici di vino profondi / dove la mente esulta/ livello di magico pensiero

                                                                                                                                           Alda Merini