Fenomenologia del sommelier, Er Murena in punta di forcone

Fenomenologia del sommelier, Er Murena in punta di forcone.

 “Le consiglio un gewürztraminer “

Prego?!? Come, le consiglio un gewürztraminer? Roba da pazzi, per molto meno ho sfidato a duello e ceffonato personaggi più pericolosi. Però, siamo seri, ci sarà un motivo per cui il sommelier di sala nei ristoranti (in particolare in quelli che si vogliono dare un tono) è una delle figure meno amate e rispettate. E’ una presenza goffa, invadente, un po’ ridicola, un po’ spettrale, non di rado arrogante. Uno stoccafisso, con il tovagliolo inamidato sospeso sull’avanbraccio, che ti guarda  con disprezzo o, in alternativa, con irritante deferenza. Ha quel sorrisetto appeso, che neanche D’Alema. Non è sempre così, certo. Ma le eccezioni sono rare. Quanto al  gewürztraminer, è come se uno andasse dal fruttivendolo e quello dicesse: “Le consiglio un mango“. O dal libraio e quello dicesse: “Le consiglio un Brizzi“. O, peggio, “Le consiglio un Deleuze“. Ma che vuol dire, come ti viene in mente? Ma quale gewürztraminer , disgraziato, non sai niente di me, non sai se ho la quinta elementare o sono laureato in enologia, se sono Giovanni Bietti o Luca Maroni, se ho un’emiparesi alle papille gustative, se ho intolleranza ai solfiti o agli idioti. Come si può avere l’arroganza di consigliare/imporre un vino senza sapere niente del cliente? E poi quale gewürztraminer ? Il Sanct Valentin o il Lunare? La Merla Bianca da 100 euro o uno Zorzettig da 15? Se vuoi ci facciamo una chiacchierata di una ventina di minuti e poi puoi provare, con cautela e discrezione, a proporre qualcosa. Altrimenti tornatene a cuccia, amico, che ai vini ci penso io.

Affidarsi all’ignoto

Però che bellezza, che gioia, quando trovi il sommelier affidabile, competente e generoso, e decidi di abbandonarti nelle sue amorevoli mani, come fosse una donna splendida che sa come vuoi essere baciato. Farti guidare e scoprire alla cieca un vino ignoto, di cui non sai nulla, ma puoi apprezzare senza pregiudizi il colore, il movimento lento o rapido nel bicchiere, l’impatto olfattivo sorprendente. Che bello lasciare da parte per un giorno tutto il presunto sapere, le migliaia di cazzate accumulate in anni di studi, di visite a vinitaly e viniveri, di letture di scanzi e massobri, mettere da parte presunzioni e pregiudizi, e affidarti all’ordalia sacra della fiducia, del rispetto, della competenza. Sommelier, lasciatevi andare, posate il tovagliolo e parlateci da pari a pari. Se saprete capirci e rispettarci, sarà amore.

La Carta perfetta

La disputa sulle Carte dei vini sta diventando divertente. Ci sono di base due partiti: quella delle carte sobrie, scabre, che vanno per sottrazione e quindi spesso impenetrabili. Lasciano il nome del vino nudo e crudo, magari accompagnato dalla denominazione, il più delle volte incomprensibile. Ed eccoti a studiare un misterioso “Liberi”, doc Casavecchia di Pontelatone, di tal Sclavi. Chiaro, no? E poi ci sono invece quelle sovrabbondanti di informazioni, con tanto di sottovoci e asterischi. Per esempio è molto in voga segnalare vini naturali e bio con questi pallini o asterischi, sorta di achtung per i clienti, come se fossero pericolosi agenti patogeni, corpi estranei da denunciare, allergeni epidemici. Ci sono quelli che ti descrivono nei dettagli la tecnica, malolattica compresa, senza dimenticare l’affinamento sulle fecce nobili e l’eventuale délestage. Ci sono quelli che si dilungano sul vitigno, decantandoti il pallagrello a bacca nera. E poi ci sono quelli che ti fanno la storia del produttore.
Giusto o sbagliato? Di fatto si tratta da una parte di dare informazioni al cliente, per orientarlo. Dall’altra di fare dello storytelling, trasformando l’atto di bere vino in un atto culturale più complesso, ma anche magari ammantandolo di fuffa (nobile).
La questione del raccontare la storia dell’autore, in fondo, è una vecchia disputa. Si cimentarono all’epoca, sia pure in campo non enologico, Proust e Saint-Beuve. Con il primo che sosteneva che non bisognava sapere nulla dell’autore, né della storia del libro, per non essere influenzati, e il secondo per il quale era invece indispensabile a un godimento pieno dell’opera la conoscenza completa di chi l’aveva scritta. Da che parte stare? Conoscere Walter Massa e Patrick Uccelli, Josko Gravner e Lino Maga aiuta ad apprezzare di più i loro vini? Non sapere la storia che sta dietro il Barbacarlo è irrilevante, per il piacere di berlo? Io dico che aiuta. Che si può bere serenamente senza saperne nulla, ma conoscere in che ambiente è maturato, come è fatto e da chi è fatto un vino produce un godimento più completo. Anche perché, come si dice, i cani somigliano ai padroni, e viceversa. E i vini, i migliori, ma forse anche i peggiori, somigliano a chi li fa. Poi c’è una misura. Certe cose vanno scritte, altre vanno dette, se è il caso. Gli asterischi, peraltro, li eviterei. Sono un’inutile ghettizzazione, scoraggia invece di informare. Ma la carta perfetta è come il vino perfetto, non esiste. Ti deve emozionare, sorprendere. Ed è un rapporto che si perfeziona a due: tu e la carta. E dunque è irripetibile.