Un saturnino e il carciofo alla giudìa

Il saturnino che atterrò in piazza San Lorenzo in Lucina in un sabato qualunque aveva un buco nello stomaco, Un buco vero, mica metaforico. Non tratteneva nulla, neanche le pillole verdi, quel tuxedomonio carboidrato che tanto amava. L'essere di Saturno, lo chiameremo Carlo, aveva una sorprendente somiglianza con il Mefistofele di Sokurov e in quel sabato italiano si sentiva triste. Seduto a un tavolino all'aperto di Matricianella, guardava insistemente un bifolco con il tovagliolo bianco al petto. Che esseri ridicoli, gli uomini. Carlo aveva fame e si sentiva malinconico. Mangiare era inutile, perché tutto quello che ingeriva finiva per cadere per terra, a causa del buco nello stomaco. Però aveva fame. Così chiese a quel ridicolo individuo gigante che cosa potesse mangiare. Barciofo alla giulìa, gli sembrò di capire. La pelle raggrinzita si raggrinzì di più e l'essere ridicolo tornò qualche minuto dopo con un cartoccio sul quale era adagiato quello che a Carlo sembrò il cadavere di un mostro tentacolare. Le sfumature nere, le ombre sinistre, le chele disperate. Quello era il risultato evidente di un massacro sistematico a colpi di machete, l'ennesimo crimine dell'umanità. Carlo cliccò sull'avambraccio e scattò l'immagine. Avrebbe riferito della cosa al premier di Saturno, un tecnocrate subentrato al premier precedente, politico dissoluto più volte accusato di castità aggravata. Carlo guardò l'immagine che si era materializzata sull'avambraccio, poi si sentì solo. Dopo avere impugnato lentamente l'oggetto di metallo biforcuto che aveva sul tavolo, Carlo toccò con i rebbi quell'essere decomposto e ancora tiepido. Come se un pugno gli avesse inferto il colpo di grazia, il corpo del barciofo era schiacciato, tumefatto, con un nucleo centrale annerito dal fuoco e i tentacoli centrifughi che sembravano cercare scampo. Dall'interno del locale, usciva una musica ritmata. Qualcuno cantava: "Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri, non abbiamo da mangiare". 
Carlo sollevò lo sguardo, l'essere cameriere abnorme lo osservava accigliato. "Che cazzo staaffà? Nun magna er cimarolo?". Il saturnino non capiva la lingua umana, ma intuì. Allora avvicinò la forchetta, ma l'essere con il tovagliolo gli afferrò il polso. "Ma chestaffà? Ca'a forchetta? Con le mano!". 
Carlo era un essere mite e non voleva dispiacere il gigante bifolco. Così afferrò una foglia abbrustolita con la mano palmata e se la portò alle labbra. Sentì un bruciore profondo, poi una sensazione di piacere diffuso sul palato, poi sulla bocca, sul collo piagato, sui rotoli del grasso che si affacciavano sul buco dello stomaco. Carlo il Saturnino chiuse le membrane sottili che sovrastavano le pupille e restò sospeso in quel piacere che non sembrava avere fine. La musica incalzava: "Intanto un mistico, forse un aviatore, scoprì la commozione, che rimise d'accordo tutti, i belli con i brutti". Poi aprì gli occhi e quel bifolco ridicolo sorrideva di un sorriso osceno e dolcissimo, con una massa di denti sgangherati e felici.
Quando il saturnino lasciò Matricianella, senza sapere che le convenzioni umane prevedevano un baratto con carta filigranata, sul marciapiede sotto il tavolino, rimase un mucchietto di foglie annerite con al centro un grumo denso e nero. I resti del cadavere tentacolare sembravano sorridere. Carlo stava uscendo dal campo, con in mano una coppetta di gelato all'amarena di Ciampini.