Allan Bay: cacio e pepe alla traditora

Una buona inchiesta giornalistica sarebbe quella che portasse come risultato la risposta a una domanda che da qualche tempo mi assilla: ma quale intruglio beve Allan Bay prima di scrivere le sue ricette sul Corriere della Sera? Di certo ne beve tanto, almeno a giudicare da quello che propina ogni settimana ai suoi lettori. L’ultima in particolare è roba da strappargli il cappellone da chef e sostituirlo con uno in carta di giornale: la cacio e pepe.

Ora, va detto che Agrette Sauvage, cioè lo scrivente, sul tema cacio e pepe è particolarmente sensibile, da sempre. E’ un po’ il piatto di casa. Insieme al tresette, al ponentino, al lungomare di Ostia, e al ponte di Corso Francia (copyright Nanni Moretti) uno dei principali punti di riferimento nel panorama cittadino. Però  va anche detto che, sensibilità a parte, quella spiegata dal signor Bay nelle sue 20 righe settimanali, è davvero un insulto gratuito, lo sfregio a un monumento.
Anche i lavapiatti dei peggiori kebabbari, con tutto il rispetto, sanno bene che la cacio e pepe si fa con due soli ingredienti. Il pecorino romano e il pepe. E che la sua principale caratteristica è quella di non avere grassi aggiunti. A tale proposito vale la pena di aprire una parentesi. La leggenda, ma anche la cronaca, vuole che Aldo Fabrizi quando incappava in piatti di cacio e pepe che recavano tracce di olio o di burro, usava chiamare al tavolo il cameriere, chiedere gentilmente di conoscere il cuoco e poi, appena questi col suo cappellone si affacciava in sala, usava tirargli contro il piatto, cercando di colpirlo al volto. Chiusa parentesi.
Il “metodo Fabrizi” è più o meno quello che meriterebbe Bay (autore, lo ricordiamo dei due best seller: Cuochi si diventa 1 e Cuochi si diventa 2; ci verrebbe da dire purtroppo) il quale nella sua ricetta della Cacio e pepe, dando per scontato l’utilizzo di un grasso  – scrive proprio così: “quanto al grasso da usare” –  prima si lancia in un’affermazione da manicomio, “burro e olio pari sono: decidete voi”, poi spiega la sua ricetta:

“Emulsionare in una casseruola 40 grammi di burro o altrettanto olio  extravergine di oliva con 1 bicchiere dell’acqua di cottura”.

Insomma: un delirio.

Il Bay, con un moto tardivo di comprensibile senso di colpa, prova a giustificarsi, spiegando di non essere tradizionalista. Ma il tradizionalismo, qui, c’entra abbastanza poco: è come dire io non sono tradizionalista e quindi invece di farla panata, la cotoletta alla milanese, la faccio bollita. Questa cosa del tradizionalismo e della creatività e della libertà in cucina meritano una seconda parentesi.
Perché chi di noi non è d’accordo con l’assunto che la cucina sia il luogo d’elezione per gli esperimenti? Personalmente vado matto per quei cuochi che si aggirano tra i fornelli con fiamme ossidriche e trapani e termometri. Ma quelli non butterebbero mai due cucchiaiate di burro in più, tanto per emulsionare qualcosa che già di suo è ottimamente emulsionata. Quelli, sempre per parlare di cacio e pepe, si inventerebbero magie termiche, oppure scherzerebbero con altri ingredienti “compatibili”, o incompatibili, ci sbufferebbero delle schiume di pera williams, per esempio, o chioserebbero con ciuffetti di cicoria. Rovesciare in padella il burro, insomma, non ha proprio la faccia dell’innovazione.
Né il Bay si può appellare all’esigenza di semplicità, vecchio rifugio dei divulgatori: la cacio e pepe nella sua versione originale è il piatto più semplice del pianeta (si sporca solamente la pentola della pasta e lo scolapasta, a farla bene) mentre per la “mappazza ignobile” ammannita dal Corriere servono anche un mortaio (per il pepe “molto meglio se del tipo di Sichuan”, dice il Bay)  e una casseruola.  
Servirebbe anche un piatto molto pesante, aggiungiamo noi, e una buona mira.