A Tor Pignattara, tra bangla e cinesi

di Margherita Bianchini

Quartiere popolarissimo sin dalle sue origini, Tor Pignattara è considerata con sospetto dai romani e ignorata dai non romani. Forse anche a causa della sua rassegna stampa negativa – omicidi, accoltellamenti, ritrovamenti di cadaveri e di serre di cannabis sativa sotterranee – pochi si spingono a esplorare questa zona incastonata tra l'Acquedotto alessandrino e la Prenestina, confinante con il quartiere più à la page del Pigneto. O forse è il nome a scoraggiare anche i più curiosi: quel "Tor" che è sinonimo di remota borgata, e quel "Pignattara" che suona così burino (ma vanta, in realtà, nobili origini archeologiche). Eppure basterebbe percorrere via del Pigneto fino in fondo per ritrovarsi in via dell'Acqua Bullicante o fare tre fermate in più con il pittoresco trenino della linea Roma-Giardinetti – che ai semafori fischia come un treno giocattolo – e scendere proprio a Tor Pignattara per scoprire un mondo vivace e variopinto. Un mash up di popoli orientali (con netta predominanza di bengalesi), romani di rude lingua torpigna e pochi, pochissimi, lavoratori squattrinati cosiddetti creativi. Tor Pignattara è un quartiere vero, in attesa di gentrificazione, con una sua storia ancora ben leggibile nelle architetture dei palazzi anni Trenta, in cui si può passeggiare grazie agli ampi marciapiedi, ricchissimo di attività commerciali e artigianali, e di ristoranti. Ecco, ed è appunto di ristoranti che vogliamo parlare.

Chi segue i consigli di Puntarella avrà già provato la cucina romana dell'Osteria Bonelli, ma qui vogliamo esplorare le tante cucine etniche del quartiere. Sono pochi i posti in cui, nel raggio di poche centinaia di metri, si può mangiare vero cinese, vero bangla, vero peruviano, vero indiano, a prezzi ultraeconomici, e provando l'ebbrezza di essere gli unici italiani all'interno del locale.
Proprio a metà di via Tor Pignattara, di fronte all'edicola, c'è l'ottimo Spice of India, come recita l'insegna è un "bar ristorante pizzeria", ma indiano. Il locale ha l'aspetto di un normalissimo bar-tabacchi, di indiano ci sono solo i dolci esposti nella vetrinetta del bancone, i video musicali in tv e, naturalmente, baristi e camerieri. E ' molto ampio, con circa venti coperti e offre a pranzo e a cena le tipiche specialità indiane, samosa, pollo tandoori, riso byriani e così via. La cucina è casalinga, il servizio super cordiale, il conto una piacevole sorpresa: con dieci euro si va via ben rifocillati.
Al mercato coperto di via Laparelli ha appena inaugurato un ristorante peruviano. L'ambiente nei colori del verde e del giallo è molto gradevole, il menu è composto da sostanziosi piatti unici a base di carne o di pesce, con riso e patate, dai prezzi che variano dagli 8 ai 13 euro. Un posto da provare.

Sull'altro lato della Casilina, in via Eratostene, lampeggiano di lucine colorate le vetrine del ristorante dal nome che è tutto un programma: Eurobangla. Un menu fotografico ci alletta con i suoi "Imboltini di carne", "imboltini di verdure" e "imboltini di patate".
Poco più in là un altro ristorante bengalese ha appena aperto, non ha insegna, possiamo solo dire che ha le pareti color rosa salmone ed è già molto frequentato.
Passando al più classico dei ristoranti etnici, il cinese, siamo qui a dare una triste notizia agli estimatori del genere: in via della Marranella ha appena chiuso un cinese strepitoso, causa affitto troppo elevato. Peccato, perché lì si potevano gustare, oltre ai soliti involtini primavera e risi cantonesi, lingue d'anatra, zampe d'anatra, colli d'anatra (anche dell'anatra non si butta via niente!), conditissimi noodles e sapide uova dei cent'anni.

Fortunatamente poco distante, in via Bordoni 22, si può fare un'esperienza altrettanto cinese in un ristorante di cui non sappiamo dire il nome perché l'insegna è in ideogrammi. Come il menu del resto. La particolarità di questo ristorante è che offre la fondue cinese, o pignatta mongola, internazionalmente nota come "hot pot". L'hot pot, è appunto, una fondue: al centro di ogni tavolo c'è un fornelletto su cui poggia una pentola colma di brodo in bollore. Il brodo contiene un pezzo di manzo, zenzero, porri e spezie e si può scegliere anche una variante piccante. Il menu è costituito da una serie di ingredienti suddivisi in verdure, spaghetti, carne, frutti di mare; il costo di ogni porzione – sufficiente per tre persone – va dai 2 ai 5 euro. Si fa un ordine collettivo per il tavolo e i vari ingredienti arrivano crudi. Ogni commensale ha a disposizione una ciotola, bacchette e un mestolo e si può scegliere se cuocersi una cosa alla volta trattenendola nel brodo con le bacchette, rischiando l'ustione, oppure se buttare tutto nella pentola e poi recuperare gli ingredienti con il mestolino. Una volta lessati, i cibi vanno conditi con alcune salse (particolarmente buona quella di anacardi). Il pasto con l'hot pot è molto performativo: bisogna cuocere, indovinare i tempi di cottura, ripescare le cose dalla pentola, cercare di non ustionarsi le mani e la bocca. E' un'ottima idea per un primo appuntamento, se la conversazione langue, l'azione non manca.
Il locale è composto da un ingresso con un bancone-vetrina in cui sono esposti i vari cibi da cuocere (tra i quali le lingue d'anatra e altre frattaglie) e due sale, separate da un cortile interno. L'ambiente è quello di un sobrio cinese, con le pareti in tinta giallina e l'immancabile televisore sintonizzato sulle telenovele cinesi che vi appassioneranno. Il servizio è cordiale, i camerieri sanno bene l'italiano anche se non mancano di chiedervi se volete billa cinese o billa Peloni. E anche qui il conto è alla portata degli indigenti lavoratori della cultura che popolano il quartiere.

Quello che vedete è uno straordinario esempio di menu cinese. Se guardate con attenzione noterete tra le voci, oltre a "cevelli", "pomone" e "cavofioli", troverete "Sangue di maiale" e "cuore di maiale".