Gli chef artisti di Milano: nessuno li può giudicare?

DanielCanzian Ristorante Milano

Gli chef artisti di Milano: nessuno li può giudicare? Scriveva Agatha Christie che «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova» e io l’altro giorno ho trasformato in prova gli indizi che i moderni locali progetto fanno fatica a pensarsi come imprese di servizi. Quelle, per stare alle slide dei consulenti, con i clienti al centro, che hanno lo scopo di rifocillarlo e dilettarlo, attenti a cosa vuole, e magari a cosa gli è piaciuto o no.

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Foto di Jacopo Salvi

Indizio numero uno: cocktail bar carino e minimal (tutti i locali della storia sono carini e minimal, forse arredati dagli stessi e sono tutti a Milano, che concentra tendenze e difetti e te li fa sperimentare prima). Ci vado una volta con amici e provo un cocktail che mi piace tantissimo, ben bilanciato, fresco, interessante. Ci torno tutto entusiasta dopo qualche giorno, lo riprovo ed è una pallida reminiscenza, il mio cocktail dell’altra volta corretto Lemonsoda. Siccome ho appena compiuto 50 anni, comincio a perdere un po’ di freni inibitori, il gestore era carino e amichevole così glielo dico, anzi lo dico prima alla cameriera.

Apriti cielo, arriva il gestore (quello carino) e mi dice semplicemente che non è possibile, che i cocktail sono fatti tutti con il prebatch (mixati prima, pirla io che pensavo li facessero al momento) e dunque tutti uguali, come i minions. Siccome mi fido di poche cose ma del mio palato sì, resto convinto di aver bevuto due cose molto diverse sotto il medesimo nome a 10 giorni di distanza. Capita, ma a casa mia (letteralmente, ho gestito un ristorante di famiglia per qualche anno, troppi) se un cliente diceva a me, sommelier diplomato Ais, che il vino sapeva di tappo lo toglievo senza né ah né bah, non glielo assaggiavo in faccia dandogli del pirla.

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Indizio numero due: colazione di sabato mattina in un forno + specialty coffee vicino casa, hipsterismo al cubo (locale – genere poverello di cui sopra – gestori, clienti). Il banconista con l’immancabile Marzocco fa un caffè speciale, talmente speciale da essere l’unico che serve, insieme a un the macha che dispensa con l’attenzione che si dedica a sostanze psicotrope assai costose. Ci disegna pure un cappuccino, che prepara con un minutaggio con cui negli altri bar di Milano servono qualche centinaio di colazioni, almeno per evitare di essere malmenati dai clienti frettolosi.

Il caffè è speciale, appunto unico, ma con una tostatura acida che io detesto e che a occhio non piace proprio a tutti. Poi siccome sei un artista, ma le autorizzazioni le devi sempre avere, mi servi queste specialità in freddi bicchieri di carta (carta) e il caffè me lo fai pagare due euro, perché la tua poetica vuole che si debba bere per forza doppio. Siccome semel in anno licet insanire, prendo anche la brioche, buona per carità, che troneggia nel bancone invero piuttosto frugale e che mi fai pagare 1,80 vuota e 2,20 piena.

Non faccio polemiche qui, un po’ perché è una bella giornata di primavera, un po’ perché il motto del locale è “o così o Pomi”, “love it or leave it”, ma penso che l’esperienza non valesse quegli 8 euro e 50 per due colazioni, dimenticabili.

trattoria sincera milano risotto

Indizio numero 3, che fa prova: trattoria di cucina lombarda appena aperta con nome che vuole richiamare valori solidi. È vicino casa, un amico l’ha recensita bene, adoro la cucina lombarda e la provo. Prendo il risotto alla milanese, non le cailles en sarchofage, il risotto alla milanese. Me lo porti, anche troppo presto, ma transeat, ed è divertente il midollo a parte, ma. Ma è in un piatto fondo e dunque si fredda subito e il giochino del midollo contribuisce a raffreddarlo. Raffreddandosi, il troppo, troppissimo parmigiano (di almeno 36 mesi) fa una crosta sottile che è la prima e quasi l’unica cosa che ti entra in bocca: tanto, tanto formaggio.

Mi dispiace, perché il tentativo di fare cucina lombarda bene è sincero, e lo dico allo chef. Perché buon Dio mi rispondi “ne prendo atto” ti giri e te ne vai? Né va meglio all’uscita, quando lo ridico a un altro dei gestori, che mi risponde “strano, è il piatto più popolare”. Che vuol dire che è il piatto più popolare? Che ha ragione? Come la storia della cacca e delle mosche.

Tutta questa concione per dire che ho sempre più l’impressione che ai giovani barman e ristoratori le troppe competenze necessarie a fare oggi questo lavoro, insieme al business plan, alla brand identity e a tutto quello che sta trasformando un lavoro artigiano in un’altra cosa fanno forse un po’ male.
Nel senso che esiste una differenza, enorme, tra essere clienti di un servizio ed essere spettatori di una performance artistica.
Nel secondo caso io vengo a fruire della performance e la mia opinione a te artista interessa fino a un certo punto, vale la libertà assoluta d’espressione o l’atto di fede.
Puoi ridere della banana di Cattelan, o inchinarti a tutti i metalinguaggi che esprime. L’arte non è comunque democratica. D’altro canto, se sei un cane, è probabile che alla fine la tua poetica non la capiscano che pochissimi, e che tu debba trovarti un altro mestiere.

Dove invece sono cliente, pago per un (anche raffinatissimo) servizio. Non solo il mio parere dovrebbe contare, ma se ti facessi furbo dovresti anche non darmi ragione, ma costruire una relazione con me, spiegarmi il tuo punto di vista, anche convincermi o comunque educatamente sentirmi.
Ho visto di persona grandi chef fermarsi al tavolo a parlare con dei clienti che palesemente non capivano nulla, ascoltando e argomentando.

Perché “il mercato è una relazione” e siccome tu mi vendi qualcosa, cibo ed esperienza della sua fruizione, è opportuno che tu mi stia a sentire. Preventivamente, pensando a quello che i clienti possono capire di quello che voglio proporre loro e soprattutto durante, se ti dico che quello che mi proponi non mi convince. Ancor più se non te lo dico con un pallino livoroso su Tripadvisor, ma di persona.

Se “prendi atto” di una critica fondata a un piatto iper popolare (dopo 10 giorni dall’apertura …) forse devi cambiare mestiere. Come forse devi riflettere seriamente se tutte le tue competenze siano d’aiuto a costruire una sana relazione con il pubblico visto che mi stai vendendo qualcosa e che dunque, purtroppo, io dovrei anche capirla e apprezzarla. O quantomeno non sentirmi un pirla se non lo faccio. A meno che il masochismo che alberga in chi abita a Milano non abbia sovvertito definitivamente ogni regola e, per stare a galla nell’oceano della fighetteria, anche l’aperitivo o il risotto alla milanese debbano per forza essere performance artistiche. Che puoi e devi solo amare.

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