Lo Schioppettino di Ronchi di Cialla, una storia dell’enologia friulana 

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Lo Schioppettino di Ronchi di Cialla, una storia dell’enologia friulana 

È il 1975. Un uomo e una donna si presentano alla porta della vecchia casa coloniale di Cialla, piccola località agricola nel comune di Prepotto (Udine). “Ci hanno detto che in questa casa abitano due matti” esordisce la donna “e qui ce ne sono altri due”. Una di fronte all’altra, ci sono due coppie di trentenni: fuori dall’uscio Benito e Giannola Nonino (sì, quelli della grappa), dentro casa Paolo e Dina Rapuzzi, che da pochi anni hanno acquistato la tenuta dei Ronchi di Cialla.

E un po’ matti Dina e Alberto lo erano davvero. Lui, rivenditore Olivetti nel ricco distretto udinese della sedia, nel 1970 si innamora di Cialla. Decide di lasciare l’azienda e dedicarsi al vino. E che vino. L’Italia in quegli anni è terra di vitigni internazionali e il Collio è in prima fila. Il consorzio ha fatto una scelta chiara: i rossi devono ricordare la brezza della Gironda e i bianchi quella della Saona, o tutt’al più della Loira. Paolo e Dina hanno un’idea diversa e girano tra i contadini della zona chiedendo il nome dei vecchi vitigni. C’è la Ribolla, come si può immaginare, c’è il Refosco, c’è il Picolit e c’è il Verduzzo. Ma l’attenzione cade subito su un nome mai sentito prima: Schioppettino. Ed è qui che nasce la pazzia. Perché lo Schioppettino non è registrato. Vitigno illegale, proibito piantarlo. “Arriveranno i carabinieri, vi sequestreranno l’area e andrete in contro a un processo penale”, promettono dall’assessorato. Ma niente. I friulani hanno la testa dura e in qualche modo la coppia si procura le barbatelle, le pianta e inizia a far crescere la vite attorno alla casa.

Arriviamo al 1975. Giannola Nonino, che ha contribuito non poco a far conoscere la grappa nel mondo come acquavite nobile, prende a cuore la pazzia dello Schioppettino. Si inventa il Premio Nonino “Risit d’Âur” (barbatella d’oro) dedicato alla salvaguardia dei vitigni autoctoni e chiama a patrocinarlo qualche giornalista. Oggi basta tirare un sasso per strada per rischiare di colpire un wine influencer, ma allora era diverso e toccava accontentarsi dei nomi che c’erano. Arrivano Mario Soldati, Gianni Brera e Luigi Veronelli. Il premio finisce alla famiglia Rapuzzi e all’assessore che prometteva la galera non resta che applaudire in platea e incassare. Il vitigno viene registrato e inizia la storia della cantina di Ronchi di Cialla.

Queste cose le racconta la signora Dina, mentre indica il minuscolo quadretto del Premio Nonino appeso in basso, vicino alla tavola, con sobrietà friulana. Le piace soprattutto parlare dei “suoi vini”, i primi che ha creato assieme al marito. Amanti della Borgogna, volevano fare vini da invecchiamento e su imbeccata di Veronelli, stregato dallo Schioppettino, si sono rivolti a Giacomo Tachis, mitico enologo di casa Antinori (tanto per chiarirci, a lui si devono Sassicaia, Solaia e Tignanello), che aiuta i Rapuzzi nelle loro prime creazioni, Refosco di Cialla e Schioppettino di Cialla, che escono per la prima volta con la vendemmia 1977.

E sono anche i due vini che Dina apre, assieme al Ciallabianco, blend di Ribolla, Picolit e Verduzzo creato nel 1992. Senza giri di parole, si tratta di vini dal carattere deciso. Macerati in acciaio e passati subito in barrique, perlopiù di secondo e terzo passaggio, dove restano un anno prima di andare in bottiglia ad affinare. Il legno resta leggerissimo, un aiuto per nulla invadente al terroir, che emerge in tutti e tre i vini con una marcata mineralità. Un naso importante e terroso e un palato fine. Lo Schioppettino sorprende, esaltato nel suo classico naso speziato e nella bocca ricca di frutti scuri.

Oggi i 27 ettari della tenuta sono gestiti da Ivan e Pierpaolo, i figli di Paolo e Dina, che hanno voluto affiancare ai vini di pregio una linea di solo acciaio, più fresca e beverina. Una Ribolla in purezza, Refosco e Schioppettino, Friluano, Verduzzo e Picolit. Scelta azzeccata che ha permesso al nome Ronchi di Cialla di circolare con più facilità.       

Fosco Maraini, lamentando la differenza abissale rispetto alla Francia, notava che l’oste italiano è già tanto se si spinge a chiedere “rosso o bianco?”, e aveva ragione René Engel negli anni Cinquanta a commentare lo stupore di Veronelli davanti a un bicchiere di Vosne-Romanée dicendo “noi francesi facciamo vini d’oro con uve d’argento, voi italiani vini d’argento con uve d’oro”. Oggi le cose non stanno più così e buona parte dei merito va alla follia di chi ha voluto recuperare i vitigni autoctoni, sacrificando la resa per esaltare il territorio. Di questa storia fanno parte Dina e Paolo Rapuzzi, con il loro Schioppettino di Cialla che non smetteremmo mai di bere.

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