Uomo di lotta e di governo, più il secondo che il primo, Oscar Farinetti giganteggia sempre di più. Impallidiscono di fronte alla sua scaltrezza economico-politica, i piccoli imprenditori nostrani, gentucola senza il suo genio istrionico, senza la sua capacità di presentarsi come elemento sovversivo del sistema nello stesso momento in cui si stringe mani governative. Con il suo baffo alla Peppone, la sua bonomia emiliana, l'Oscar nazionale è destinato, lo abbiamo scritto più volte, a superare il logoro Cavaliere per capacità demagogica e furbo populismo. Dopo aver appoggiato Matteo Renzi e spiegato che le aziende devono "potersi liberare di chi non ha voglia di lavorare", dopo aver propagandato il suo modello di capitalismo moderno, basato sulla diffusione virale delle eccellenze gastronomiche (ovviamente definite tali da lui, dopo averle acquisite), Farinetti fa ora entrare nel suo tempio gourmet la birra commerciale per eccellenza, la Peroni. Non lo fa con l'ipocrisia di un grigio politico democristo d'altri tempi, ma come quel furbo capopopolo che piace tanto agli italiani: lo fa, cioè, rivendicandolo con parole che bisogna riportare per intero: "Non voglio più lottare contro le multinazionali ma voglio convincerle a diventare buone, pulite e giuste".
"E SabMiller – prosegue – che ha mantenuto, valorizzato e diffuso nel mondo l'identità italiana di Peroni lo è. Sono favorevole a esportare le eccellenze italiane nel mondo e, in questo senso, sono contrario al cosiddetto km zero”. Convintosi che quest'ultimo è una palla al piede che rischia di limitare gli incassi e gli export, Farinetti si libera con disinvoltura di uno dei capisaldi del lavoro del suo vecchio amico Carlìn Petrini. Troppo veterofoodista per lui, proiettato verso una sinistra moderna, libera dalle gabbie dell'ideologia. Libero come il sole, come il suo Vino libero, come il liberismo, approdo finale di ogni sinistra ultramodernista. Chiamami Oscar, sarò la tua Peroni.