
Osteria alla Grande a Milano. «Mettere in carta un vino caro? Ma neanche per idea. Questa è un’osteria vera, l’ultima osteria di Milano, e deve rimanere tale. Una bottiglia di vino non deve costare più di un secondo, 15 euro». Roberto, detto lo «Smilzo el brontolon», è rintanato nel suo posto di comando, una seggiolina all’angolo d’entrata, a destra. Ha un foglio nel quale segna a penna le prenotazioni. «Andrea per due? Non c’è. Forse Alberto?». Arriva la moglie Elena (detta «Santa Pazienza») dalla cucina, interviene con un sorriso e chiede chi ha preso la prenotazione. «Ah, subito pronta a darmi la colpa eh. Vabbè, bevete un bicchiere qui davanti e ci rivediamo tra 20 minuti».
Apre il cuore trovare un’osteria vera, un posto miracolosamente intatto, dove si mangia bene e si sta bene, senza troppi orpelli e dove si può conversare, scherzare, parlare, senza fretta. Lo smilzo e la moglie 20 anni fa sono andati via prima da Morimondo poi dai Navigli: «Non se ne poteva più – dice Elena – Neanche un po’ di verde». Ed eccoli sbarcati a Baggio, che una volta se lo dicevi ti guardavano un po’ così: «Baggio, eh…». Ora è diventato cool (dio ci perdoni), l’ha citato perfino Michele Masneri sul Foglio, per dire che è un quartiere vivace, con locali che aprono, come questo bel cocktail e wine bar, il Dada, che sta di fronte.
Baggio cool, si fa per dire, il quartiere è ancora intatto, semmai ha preso vivacità, slancio, consapevolezza, ma resta sempre un po’ un viaggio arrivarci dal centro, se consideri un viaggio 30-40 minuti da piazzale Loreto.
Vale però l’escursione quest’osteria e lo capisci già quando chiami per prenotare: «Alla Grande!», esclama lo smilzo e tu pensi, «Alla grandissima!». Che poi scopri che il nome è venuto in mente allo smilzo ascoltando quello sciroccato di Franco Fanigliulo cantare a Sanremo nel 1979 “A me mi piace vivere alla grande” (girare tra le favole in mutande). Ed eccoci qui, in via Forze Armate 405, che uno si aspetta un vialone incubo e invece è dentro un dedalo di viuzze, dove son belli anche i nomi e anticamente non pretenziosi: via Gianella, via Ceriani, via Sgambati. Sentite che suono: gianella, ceriani, sgambati. Per fortuna via Garibaldi, via Dante e tutti gli altri patrioti e poeti laureati hanno già intasato il centro, qui ci son solo poeti amici di Liszt (lo Sgambati), il primo sindaco di Baggio che donò i suoi soldi per aprire il primo asilo (il Gianella) e esperti di lingua siriaca, paleografi e curatori della biblioteca Ambrosiana (il Ceriani). Verrebbe voglia di interrompere la perlustrazione dell’osteria e divagare per strade e nomi.
Ma vabbè, torniamo alla patria scalcagnata e bellissima dello smilzo. Niente dehors, naturalmente, la parola è sconosciuta. Ci sono due piani, uno molto intimo a pian terreno, dove regna il kitch (anche sopra). Già alla porta si capisce l’antifona. Una foto con fotomontaggio di donna che sembra volare e la scritta: «Alla grande. Riusciamo a far lievitare i corpi. Ma fortunatamente per voi non riusciamo ad alzare i prezzi». Poi la «preghiera dell’oste» («è improbabile che Dio ti richiami al cellulare, ma se vuoi vederlo quando esci inviagli un messaggio mentre stai guidando ») e l’avvertenza che «si accetta anche contante, con ovvio rilascio di scontrino fiscale». Traducendo, significa che qui le carte di credito non sono gradite, astenersi puristi del fisco e moralisti della modernità: «Ma chi la sa far funzionare una carta e poi tutte queste procedure. Commercialista? E chi ce l’ha un commercialista?».
Sul bancone, gli stuzzicadenti Samurai, una bottiglietta di Coca Cola marmorizzata, sculture-patacca di Arlecchini e osti, una collezione di cucchiaini antichi (ma che ne sapete voi), ritagli di giornali, il manifesto della «giornata mondiale della prevenzione della disfunzione erettile», giustamente celebrata, un Visintin che esalta i loro mondeghili, la foto di un Dracula d’annata, un criptico manifesto che dice «E’ obbligatorio chiudere l’aria prima di staccare l’innesto del succhiatore» e molto altro impossibile da catalogare.
Noi saliamo su al primo, dove il kitsch raggiunge vette notevoli e danno un cospicuo contributo anche i clienti, che sembrano stati scelti con cura per adeguarsi all’ambiente. Alle pareti specchi e grandi quadri di Angelo Inganni, con paesaggi urbani antichi milanesi, forse viste di Baggio ottocentesche, chissà. Tavoli ben ravvicinati, tovagliette di carta paglia personalizzate con il «codice perdinci» e altre poesiole. La poesia migliore, meglio dell’Infinito leopardiano, è il menu. Incorniciato in un porta menu di finta pelle maròn, dal sapore un po’ di sagrestia, con un sottitolo che è rima baciata celestiale: «Osteria alla Grande, e per onorare lo detto nome lo coperto da noi è fuori discussione». Per completare il kitsch, nel weekend suona Donato dei Profeti (per gli infrasessantenni, nel ’68 trionfarono con “Gli occhi verdi dell’amore“, con gran vibrato nella voce e coretti celestiali).
La meraviglia prosegue con la lettura dell’opera menu. Si comincia con gli antipasti, dove primeggiano i «piatti di legno», sì voi li chiamate taglieri, con salumi piacentini, prosciutto d’oca di Mortara e la slinzega (una sorta di bresaola valtellinese), «adagiata su pancarrè tostato e crema di caprino con erba cipollina». Non è poesia questa?
Andiamo ai primi, tutti a 9 euro, per non sbagliare, con il «risotto alla Longobarda con funghi porcini e zafferano», gli gnocchi di patate e gorgonzola, i ravioli di brasato saltati con sugo di arrosto, la pasta e fagioli (goduria), le tagliatelle con funghi porcini di Borgotaro, quello con «il mitico ragù di Elena», i «tortelli d’oca adagiati su verze in umido e saltati in padella». Neanche un refuso, incredibile.
Eccoci ai «secondi con contorno» (tutto 15 euro, non vi fate più fregare, 6 euro per un piattino di patate di contorno è un furto). Ve li riportiamo tutti, che sarebbe un reato omettere, sunteggiare, compendiare: gli involtini alla Grande con vero purè di patate, la vera trippa alla milanese S.F., i bocconcini di chinghiale selvatico con polenta, la cotoletta alla milanese con patate saltate, la robespierre al rosmarino con patate saltate, gli stracotti alla senape, con erba cipollina e patate saltate, il rognoncino trifolato con patate lesse, lo stinco al forno con patate arrosto.
Poi ci sono i formaggi, il gorgonzola di Nicorvo, il taleggio della Valtellina, le scheggie di Parmigiano, la ruota di formaggi misti (tre da 4 euro e l’ultimo da 10). Infine, il sorbetto della casa, la torta di mele noci e cannella, la torta pesche e cioccolato. Neanche un tiramisù destrutturato, niente frangipane, zero bavarese al pistacchio.
State già pensando, bello dai, pittoresco. Ma quale pittoresco, qui è tutto vero, qui è tutta umanità e cucina sincera, gli involtini sono commoventi, la pasta e fagioli da sturbo, la cotoletta un’orecchia d’elefante che ti fa sentire meglio il rumore del mondo. Del resto, qui da Baggio il sottofondo è il suono familiare della buona cucina e della gioia di mangiare in compagnia e stare bene.
Alla fine lo Smilzo, per riparare l’errore di prenotazione, ci offre un amaro («ma cosa prendi il Braulio, c’è una liquirizia buonissima»), Santa Pazienza dice che gli servirebbe un «delfino» per portare avanti la baracca, il brontolone brontola che «tanto poi lo mandi via dopo due giorni» e si va avanti a bere, tra un «vada via al culo» e l’altro», prima di barcollare per via Sgambati, canticchiando «l’Allegro assai e appassionato» (1200 riproduzioni su Spotify, quanta ignoranza).
Osteria alla Grande a Milano, via Forze Armate 405, tel 02.489.11166
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